Favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. No al sequestro dell’immobile. Trib. Reggio Emilia ord. 02.03.2020 dott. Ghini

In tema di c.d. favoreggiamento dell’immigrazione clandestina (art. 12 comma 5 d.lgs. n. 286/1998), il presupposto per la cautela reale preventiva sull’immobile ove si ritiene trovino alloggio le persone irregolari è costituito non dalla gravità indiziaria, bensì dalla astratta configurabilità del reato, vale a dire dal fatto che l’ipotesi accusatoria, indipendentemente dalla comparazione con altre ipotesi concorrenti, trovi in ogni caso un qualche sostegno negli atti di indagine.

A fronte delle sole dichiarazione degli immigrati privi di permesso di soggiorno, i quali avevano riferito di essere ospitati a titolo gratuito nell’immobile oggetto di sequestro, il Tribunale di Reggio Emilia, in funziona di giudice del riesame reale, ha annullato il sequestro preventivo.

Il testo dell’ordinanza 03.03.2020 del Tribunale di Reggio Emilia è scaricabile qui.

Non fondate le questioni di legittimità costituzionale della c.d. Legge Merlin

Di seguito il comunicato stampa diramato dalla Consulta in relazione alle questioni di legittimità della c.d. Legge Merlini, sollevate dalla Corte di Appello di Bari.

Di seguito il comunicato stampa, reperibile nella sua versione originale qui.

Si rimette il testo dell’ordinanza di rimessione degli atti alla Corte Costituzionale: C. App. Bari, Sez. III pen. ord., 06.0.2018.

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LA PROSTITUZIONE AL TEMPO DELLE ESCORT:LA CONSULTA “SALVA” LA LEGGE MERLIN

La Corte costituzionale, riunita in camera di consiglio, ha deciso le questioni sulla legge Merlin sollevate dalla Corte d’appello di Bari e discusse nell’udienza pubblica del 5febbraio 2019.

In attesa del deposito della sentenza, l’Ufficio stampa della Corte fa sapere che le questioni di legittimità costituzionale riguardanti il reclutamento e il favoreggiamento della prostituzione, puniti dalla legge Merlin, sono state dichiarate non fondate.

Le questioni erano state sollevate con specifico riferimento all’attività di prostituzioneliberamente e consapevolmente esercitata dalle cosiddette escort. I giudici baresi sostenevano, in particolare, che la prostituzione è un’espressione della libertà sessuale tutelata dalla Costituzione e che, pertanto, punire chi svolge un’attività di intermediazione tra prostituta e cliente o di favoreggiamento della prostituzione equivarrebbe a compromettere l’esercizio tanto della libertà sessuale quanto della libertà di iniziativa economica della prostituta, colpendo condotte di terzi non lesive di alcun bene giuridico.

La Corte costituzionale ha ritenuto che non è in contrasto con la Costituzione la scelta di politica criminale operata con la legge Merlin, quella cioè di configurare la prostituzione come un’attività in sé lecita ma al tempo stesso di punire tutte le condotte di terzi che la agevolino o la sfruttino.

Inoltre, la Corte ha ritenuto che il reato di favoreggiamento della prostituzione non contrasta con il principio di determinatezza e tassatività della fattispecie penale.

Roma, 6 marzo 2019

Per i clienti rumorosi, risponde (penalmente) l’esercente. Cass. Pen., Sez. III, 08.05.2017 n. 22142

La Corte di Cassazione, con la sentenza della Terza Sezione Penale dell’08.05.2017, n. 22142 (udienza del 18.01.2017), dopo una completa ricognizione della normativa e della giurisprudenza sull’art. 659 cod. pen. e sulla normativa speciale sul c.d. “inquinamento acustico”, afferma che l’esercente un pubblico esercizio ha l’obbligo di impedire gli schiamazzi o i rumori (eccessivi) prodotti dai clienti, anche all’esterno del locale, potendo ricorrere ai più vari accorgimenti: dagli avvisi alla clientela all’impiego di personale dedicato, dalla somministrazione delle bevande soltanto in recipienti non da asporto, così che le stesse siano consumate all’interno del locale, fino al ricorso all’autorità di polizia o all’esercizio dello ius excludendi.

Di seguito il testo delle motivazioni.

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REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE 

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da
G.I., nato a X il XX/XX/19XX,

avverso la sentenza in data 26/02/2016 della Corte d’appello di Trieste
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Carlo Renoldi;
udito il Pubblico Ministero, in persona del sostituto Procuratore generale dott.ssa Marilia di Nardo, che ha concluso chiedendo la pronuncia di una declaratoria di inammissibilità.

RITENUTO IN FATTO

1. I.G. era stato citato a giudizio dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Udine per avere “in diverse circostanze di tempo, e nella sua qualità di gestore del pubblico esercizio M.D.S. composto di due aree, l’una all’insegna M. e l’altra all’insegna M.D.S., sito in Y Via X, non impedendo gli schiamazzi degli avventori che stazionavano all’esterno del predetto esercizio e che si protraevano sino a tarda notte”, creato disturbo al riposo dei residenti nelle vie limitrofe, in particolare ai residenti di Via X, Via Y e Piazza Z”; fatti commessi in Y a partire dal 30/10/2012 ed in permanenza.

1.1. All’esito del giudizio di primo grado G. era stato condannato, con sentenza del Tribunale di Udine, Sezione distaccata di Palmanova in data 31/10/2012, alla pena di un mese e dieci giorni di arresto in quanto riconosciuto colpevole dei reati, unificati dal vincolo della continuazione, di cui agli artt. 81, 40 comma 2 e 659 cod. pen.. E con successiva sentenza in data 26/02/2016 la Corte d’appello di Trieste aveva confermato la pronuncia di primo grado.

2. Avverso la sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione lo stesso G., a mezzo del difensore fiduciario, deducendo tre distinti motivi di censura.

2.1. Con il primo di essi, il ricorrente denuncia, ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e) cod, proc. pen., la erronea applicazione della legge penale in relazione agli artt. 40, comma 1 e 659 cod. pen., per avere la sentenza impugnata erroneamente ascritto all’imputato, gestore di un esercizio pubblico, gli schiamazzi prodotti dagli avventori del medesimo locale all’uscita della discoteca e i rumori derivanti dalle autovetture dei clienti. In particolare, la corte triestina avrebbe per un verso affermato, erroneamente, l’esistenza di un potere di controllo del titolare dell’esercizio anche sulle condotte compiute, all’esterno del locale, dalla propria clientela; e, per altro verso, avrebbe ritenuto insufficienti le misure organizzative adottate da Gasparotto, in quanto inidonee ad impedire l’evento, costituito dal disturbo della tranquillità pubblica.

2.2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce, ex art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen., la manifesta illogicità della motivazione in quanto la decisione sarebbe fondata, non su ragionevoli massime di esperienza, quanto su “mere congetture”, consistenti nell’affermazione, non verificata, che ove G. avesse predisposto un’adeguata segnaletica ovvero un servizio di vigilanza, egli avrebbe impedito il parcheggio delle vetture nelle vie del centro, eliminando i rumori molesti prodotti dai motori delle automobili.

2.3. Con il terzo motivo, il ricorrente deduce, ex art. 606, comma 1, lett. b) e c) cod. proc. pen., l’erronea applicazione della legge penale e l’inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità in relazione al principio di corrispondenza fra l’imputazione e la sentenza, avendo il provvedimento impugnato affermato la responsabilità dell’imputato anche in relazione all’alto volume della musica suonata nell’esercizio pubblico di cui era titolare, ovvero sulla base di un elemento fattuale differente da quanto contestatogli nel capo di imputazione, idoneo ad integrare una differente fattispecie incriminatrice, essendo l’art. 659 cod. pen. una “disposizione a più norme”. Pertanto, ricorrendo una violazione dell’art. 518 cod. proc. pen., la sentenza sarebbe nulla per violazione dell’art. 522 del codice di rito, sia pure soltanto nella parte relativa al fatto nuovo.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è infondato.

2. Giova, preliminarmente, porre in luce come l’art. 659, inserito nel codice penale tra le contravvenzioni concernenti l’ordine e la tranquillità pubblica, preveda due distinte ipotesi di reato: quella di cui al primo comma, che punisce il comportamento di colui il quale “mediante schiamazzi o rumori, ovvero abusando di strumenti sonori o di segnalazioni acustiche ovvero suscitando o non impedendo strepiti di animali, disturba le occupazioni o il riposo delle persone, ovvero gli spettacoli, i ritrovi o i trattenimenti pubblici”; nonché quella di cui al secondo comma, che invece punisce il fatto di “chi esercita una professione o un mestiere rumoroso contro le disposizioni della legge o le prescrizioni dell’Autorità”. Dunque, mentre la prima fattispecie, contemplata dal comma 1, punisce il disturbo della pubblica quiete da chiunque cagionato, peraltro con modalità espressamente e tassativamente determinate, la seconda, disciplinata dal comma 2, punisce le attività rumorose, industriali o professionali, esercitate in difformità dalle prescrizioni di legge o dalle disposizioni dell’autorità (Sez. 3, n. 23529 del 13/05/2014, Ioniez, Rv. 259194).

Controverso è il rapporto tra le due ipotesi di reato, così come quello tra le stesse e la disciplina dettata dall’art. 10, comma 2, della legge 26 ottobre 1995, n. 447 (cd. legge quadro sull’inquinamento acustico), la quale prevede un’ipotesi di illecito amministrativo nel caso in cui “nell’esercizio o nell’impiego di una sorgente fissa o mobile di emissioni sonore” si superino “i valori limite di emissione o di immissione” fissati in conformità al disposto dell’art. 3, comma 1, lettera a) della stessa legge.

2.1. Secondo un primo indirizzo, “il mancato rispetto dei limiti di emissione del rumore stabiliti dal D.P.C.M. 1 marzo 1991 può integrare la fattispecie di reato prevista dall’art. 659, comma secondo, cod. pen., allorquando l’inquinamento acustico è concretamente idoneo a recare disturbo al riposo e alle occupazioni di una pluralità indeterminata di persone, non essendo in tal caso applicabile il principio di specialità di cui all’art. 9 della legge n. 689 del 1981 in relazione all’illecito amministrativo previsto dall’art. 10, comma secondo, della legge n. 447 del 1995” (Sez. 3, n. 15919 in data 8/04/2015, CO.NA.VAR. S.r.l., Rv. 266627; Sez. 3 n. 37184 del 3/07/2014, Torricella, non massimata; Sez. 1, n. 4466 del 5/12/2013, Giovanelli e altro, Rv. 259156; Sez. 1, n. 33413 del 7/06/2012, Girolimetti, Rv. 253483; Sez. 1, n. 1561 del 5/12/2006, Rey ed altro, Rv. 235883; Sez. 1, n. 25103 del 16/04/2004, Amato, Rv. 228244, relativa ad un caso di superamento dei valori-limite di rumorosità prodotta nell’attività di esercizio di una discoteca). Ciò in quanto le due disposizioni sarebbero poste a protezione di beni giuridici diversi: mentre le fattispecie previste dall’art. 659 cod. pen. tutelerebbero la tranquillità pubblica, evitando che le occupazioni e il riposo delle persone possano venire disturbate con schiamazzi o rumori o con altre attività idonee ad interferire nel normale svolgimento della vita privata di un numero indeterminato di persone, con conseguente messa in pericolo del bene della pubblica tranquillità, viceversa, la fattispecie contemplata dall’art. 10, comma 2, della legge n. 447 del 1995, tutelerebbe genericamente la salubrità ambientale e la salute umana, limitandosi a stabilire i limiti di rumorosità delle sorgenti sonore, oltre i quali debba ritenersi sussistente l’inquinamento acustico, sanzionato in via amministrativa in considerazione dei danni che il rumore può produrre sia sul fisico che sulla psiche delle persone.
Secondo un opposto orientamento, il superamento dei limiti di accettabilità di emissioni sonore derivanti dall’esercizio di mestieri rumorosi configurerebbe l’illecito amministrativo di cui all’art. 10, comma 2, legge n. 447 del 1995 (cfr. Sez. 1, n. 530 del 3/12/2004, P.M. in proc. Termini e altro, Rv. 230890; Sez. 3, n. 2875 del 21/12/2006, Roma, Rv. 236091; Sez. 1, n. 48309 del 13/01/2012, Carrozzo e altro, Rv. 254088; Sez. 3, n. 13015 del 31/01/2014, Vazzana, Rv. 258702), atteso che a seguito dell’entrata in vigore della cd. legge quadro sull’inquinamento acustico il comma 2 dell’art. 659 cod. pen. sarebbe stato sostanzialmente abrogato, in applicazione del principio di specialità contenuto nell’art. 9 della legge 24 novembre 1981, n. 689, data la perfetta identità dell’ambito delineato dalla norma codicistica e di quello, di contenuto più ampio, sanzionato, solo in via amministrativa, in forza dell’altra disposizione.
Secondo un indirizzo intermedio, infine, è configurabile l’illecito amministrativo di cui all’art. 10, comma 2, della legge n. 447/1995 ove si verifichi soltanto il superamento dei limiti differenziali di rumore fissati dalle leggi e dai decreti presidenziali in materia; la contravvenzione di cui al comma 1 dell’art. 659, cod. pen., ove il fatto costituivo dell’illecito sia rappresentato da qualcosa di diverso dal mero superamento dei limiti di rumore, per effetto di un esercizio del mestiere che ecceda le sue normali modalità o ne costituisca un uso smodato; quella di cui al comma 2 dell’art. 659 cod. pen. qualora la violazione riguardi altre prescrizioni legali o della Autorità, attinenti all’esercizio del mestiere rumoroso, diverse da quelle impositive di limiti di immissioni acustiche (Sez. 3, n. 25424 del 5/06/2015, Pastore, non nnassimata; Sez. 3, n. 5735 del 21/01/2015, Giuffrè, Rv. 261885; Sez. 3, n. 42026 del 18/09/2014, Claudino, Rv. 260658; Sez. 1, n. 25601 del 19/04/2013, Casella, non massimata; Sez. 1, n. 39852 del 12/06/2012, Minetti, Rv. 253475; Sez. 1, n. 48309 del 13/11/2012, Carrozzo, Rv. 254088; Sez. 1, n. 44167 del 27/10/2009, Fiumara, Rv. 245563; Sez. 1, n. 23866 del 9/06/2009, Valvassore, Rv. 243807).
A favore di questo indirizzo si è rilevato, infatti, come l’affermazione secondo cui l’illecito amministrativo tuteli genericamente la salubrità ambientale sia smentito dal tenore letterale delle disposizioni contenute nella legge n. 447/1995, le quali, secondo l’art. 1, sono dettate per la “tutela dell’ambiente esterno e dell’ambiente abitativo dall’inquinamento acustico”. Tali disposizioni, all’art. 2, comma 1, lett. a), identificano l’inquinamento acustico nella “introduzione di rumore nell’ambiente abitativo o nell’ambiente esterno tale da provocare fastidio o disturbo al riposo ed alle attività umane, pericolo per la salute umana, deterioramento degli ecosistemi, dei beni materiali, dei monumenti, dell’ambiente abitativo o dell’ambiente esterno o tale da interferire con le legittime fruizioni degli ambienti stessi”; e ancora, alla lettera b) del medesimo comma, identificano l’ambiente abitativo con “ogni ambiente interno ad un edificio destinato alla permanenza di persone o di comunità ed utilizzato per le diverse attività umane, fatta eccezione per gli ambienti destinati ad attività produttive per i quali resta ferma la disciplina di cui al D.Lgs. 15 agosto 1991, n. 277, salvo per quanto concerne l’immissione di rumore da sorgenti sonore esterne ai locali in cui si svolgono le attività produttive”.
In questa prospettiva, il bene giuridico tutelato dalla “legge-quadro [deve considerarsi] ben più ampio, in quanto il legislatore non si è limitato a prendere in esame esclusivamente la tutela dei singoli individui, perché la sua attenzione risulta focalizzata verso un ben più ampio contesto, valutando ogni possibile effetto negativo del rumore, inteso, appunto, come fenomeno “inquinante”, tale cioè, da avere effetti negativi sull’ambiente, alterandone l’equilibrio ed incidendo non soltanto sulle persone, sulla loro salute e sulle loro condizioni di vita, facendo la norma riferimento, come si è detto, anche agli ecosistemi, ai beni materiali ed ai monumenti”. Pertanto, secondo questo orientamento, una piena sovrapponibilità tra le due fattispecie dell’art. 659, comma 2 e dell’art. 10 citato, deve aversi soltanto nel caso in cui l’attività rumorosa si sia concretata nel mero superamento dei valori limite di emissione specificamente stabiliti in base ai criteri delineati dalla legge quadro, causato mediante l’esercizio o l’impiego delle sorgenti individuate dalla legge medesima. Ed in tali casi, sulla base dei principi enunciati dalle Sezioni Unite n. 1963/2011 del 28/10/2010, Di Lorenzo, Rv. 248722, il concorso tra disposizione penale incriminatrice e disposizione amministrativa sanzionatoria in riferimento allo stesso fatto, deve essere risolto a favore della disposizione speciale, costituita dalla fattispecie amministrativa. Viceversa, restano esclusi dall’ambito comune delle due ipotesi di illecito sia il superamento di soglie di rumore diversamente individuate o generate da altre fonti, sia l’insieme delle condotte che si estrinsecano nell’esercizio di attività rumorose svolte in violazione di altre disposizioni di legge o delle prescrizioni dell’autorità, trovando pacifica applicazione, in tali casi, l’art. 659, comma 2, cod. pen..

Quando, poi, le attività di cui sopra vengano svolte eccedendo dalle normali modalità di esercizio, rivelandosi idonee a turbare la pubblica quiete, sarà invece configurabile la violazione sanzionata dall’art. 659, comma 1, cod. pen. (per questo indirizzo si vedano: Sez. 3, n. 25424 del 5/06/2015, Pastore, non massimata; e, soprattutto, Sez. 3, n. 5735 del 21/01/2015, Giuffrè, Rv. 261885).

2.2. Tanto premesso, rileva il Collegio che la condotta descritta in imputazione rientra nella previsione del comma 1 dell’art. 659 cod. pen. in base a tutti e tre gli indirizzi giurisprudenziali prima richiamati.
Gli schiamazzi e i rumori prodotti dagli avventori di un esercizio pubblico, suscettibili di disturbare le occupazioni o il riposo delle persone, infatti, sono stati ricondotti non alle emissioni sonore prodotte, ordinariamente, da un qualunque esercizio nel quale si somministrino cibi e bevande e nel quale vengano tenuti servizi di intrattenimento musicale, quanto piuttosto a situazioni eccedenti le normali modalità di esercizio dell’attività intrinsecamente rumorosa. Pertanto, anche per il terzo degli indirizzi richiamati deve ritenersi configurabile, in una situazione come quella descritta, la fattispecie di cui al comma 1 dell’art. 659.
Sotto altro profilo, e segnatamente in relazione alla configurabilità della contravvenzione in esame nella forma omissiva, deve osservarsi che la giurisprudenza di legittimità ha riconosciuto, in capo al titolare di un esercizio pubblico, l’esistenza di una posizione di garanzia cui è correlato l’obbligo giuridico di impedire gli schiamazzi o comunque i rumori prodotti, in maniera eccessiva, dalla propria clientela, in questo modo configurando gli elementi strutturali propri delle fattispecie omissive improprie (cd. reati commissivi mediante omissione), caratterizzate dall’integrazione tra la struttura tipica del reato commissivo, cui sono riconducibili alcune tra le condotte previste dal comma 1 dell’art. 659, e la norma generale posta dall’art. 40, comma 2, cod. pen., secondo cui risponde di un evento dannoso o pericoloso colui il quale abbia l’obbligo giuridico di impedirlo.
Detto obbligo, il quale si sostanzia nel doveroso esercizio di un potere di controllo, è pacificamente configurabile a carico del titolare di una attività commerciale aperta al pubblico rispetto alle condotte poste in essere da parte dei suoi clienti che si trovino all’interno del locale, nei cui confronti egli è, dunque, tenuto ad adottare le misure più idonee ad impedire che determinati comportamenti da parte degli utenti possano sfociare in condotte contrastanti con le norme poste a tutela dell’ordine e della tranquillità pubblica. E tuttavia, si è ritenuto che un siffatto obbligo sussista anche per gli schiamazzi e i rumori prodotti dagli avventori all’esterno del locale, potendo il titolare ricorrere ai più vari accorgimenti, dagli avvisi alla clientela all’impiego di personale dedicato, dalla somministrazione delle bevande soltanto in recipienti non da asporto, in modo che esse vengano consumate all’interno del locale, fino al ricorso all’autorità di polizia o all’esercizio dello ius excludendi, quando essi siano comunque direttamente riferibili all’esercizio dell’attività, come nel caso in cui gli avventori permangano rumorosamente in sosta davanti al locale (v. Sez. F, n. 34283 del 28/07/2015, dep. 6/08/2015, Gallo, Rv. 264501; Sez. 1, n. 48122 del 3/12/2008, deo. 24/12/2008, Baruffaldi, Rv. 242808; Sez. 6, n. 7980 del 24/05/1993, dep. 24/08/1993, Papez, Rv. 194904); fermo restando che, fuori da tali casi, non è configurabile alcun potere di controllo e, correlativamente, nessun obbligo in capo al titolare (v. Sez. 3, n. 37196 del 5/09/2014, dep. 5/09/2014, Bonechi e altri, non massimata).

2.3. Nel caso di specie, il titolare dell’esercizio, consapevole dei suoi obblighi, aveva adottato alcune misure volte ad impedire che gli schiamazzi prodotti dai suoi clienti potessero recare disturbo ai residenti nella zona; accorgimenti consistiti nell’apposizione, all’entrata del locale, di un apposito cartellone.
Tali misure, però, sono state ritenute insufficienti in quanto, alla stregua di un giudizio controfattuale esperito dai giudici di primo e secondo grado, le stesse non hanno sortito alcun concreto effetto, non avendo esse determinato alcun apprezzabile risultato, neanche temporaneo, sui disturbi recati dalla clientela. Ciò vale anche per i rumori provocati dai veicoli degli avventori, che venivano parcheggiati in prossimità del locale e che, per effetto di improvvise accelerazioni e per lo stridio degli pneumatici, erano percepiti come una fonte di disturbo dai residenti.

Anche in questo caso, pur avendo il titolare dell’esercizio adibito una apposita area per il parcheggio dei veicoli da parte dei propri clienti, la Corte d’appello ha rilevato, con ragionamento tutt’altro che illogico, come dalla mancata adozione di misure atte ad indurre i clienti a servirsi di tale parcheggio, sito a poche centinaia di metri, per poi raggiungere a piedi il locale, sia derivata una moltiplicazione delle occasioni in cui le vetture degli avventori producevano dei fastidiosissimi rumori. Misure che, invero, sarebbero state di non difficile adozione e che il titolare dell’esercizio avrebbe, quindi, potuto agevolmente assumere una volta raggiunto dalle proteste dei residenti. Né può ritenersi illogica l’affermazione, censurata con il secondo motivo di ricorso, secondo cui sarebbe fondata su “mere congetture” l’affermazione secondo cui l’adozione di misure per regolamentare il parcheggio avrebbe impedito i rumori molesti prodotti dai motori delle automobili condotte dagli avventori del locale.

I principi dettati in materia di accertamento del nesso causale, nondimeno, postulano che l’incidenza causale della condotta asseritamente rilevante sul piano eziologico sia valutata in rapporto ad un evento (ovvero, come nella specie, ad una serie di eventi) storicamente determinati e non in termini di astratta idoneità a determinare modificazione del mondo esterno appartenenti ad una determinata tipologia di accadimenti. Ed è, dunque, evidente come l’adozione di accorgimenti diretti a circoscrivere il volume di traffico nella zona ove era ubicato il locale avrebbe concorso a ridurre, in maniera rilevante, la produzione di rumori avvertiti come fortemente molesti; sicché la mancata sperimentazione di misure rivolte a tal fine, da parte del titolare dell’esercizio, ha sicuramente concorso a determinare l’insieme di eventi rumorosi, storicamente determinati e descritti nell’imputazione, anche se assai difficilmente essa avrebbe impedito tout court ogni manifestazione disturbante.

Del tutto correttamente, dunque, alla stregua dei principi in precedenza richiamati il gestore dell’esercizio è stato chiamato a rispondere del reato di cui all’art. 659, comma 1, cod. pen.; ciò che conclusivamente comporta la declaratoria di infondatezza delle censure dedotte con i primi due motivi di ricorso.

3. Le considerazioni che precedono consentono di rilevare che la configurabilità dei reati in contestazione, riferibili a plurimi episodi di schiamazzi da parte della clientela dell’esercizio di cui Gasparotto era titolare, è stata affermata, innanzitutto, in relazione alle condotte omissive dell’odierno imputato. E tuttavia, i giudici di merito, alla stregua delle concrete emergenze dell’istruttoria dibattimentale, hanno configurato delle ulteriori condotte rilevanti ai sensi dell’art. 659 cod. pen., consistenti nelle emissioni sonore prodotte dall’eccessivo volume della musica suonata all’interno dell’esercizio.

Sul punto, al di là delle questioni relative alla riconducibilità di tali condotte nell’alveo del primo piuttosto che del secondo comma dell’art. 659 cod. pen., rispetto alle quali il ricorrente non ha sviluppato alcuna censura e che, quindi, possono essere qui tralasciate, si opina che le sentenze di merito avrebbero dato ingresso a fatti nuovi rispetto a quelli descritti in imputazione, sicché le stesse sarebbero viziate da nullità, ai sensi dell’art. 522 cod. proc. pen., per violazione del principio di corrispondenza tra l’accusa e la sentenza, sancito dall’art. 521 del codice di rito.

In proposito, giova tuttavia richiamare il consolidato orientamento della giurisprudenza di questa Corte, secondo cui le norme che disciplinano la correlazione tra l’imputazione contestata e la sentenza, avendo lo scopo di assicurare il contraddittorio sul contenuto dell’accusa e, quindi, il pieno esercizio del diritto di difesa dell’imputato, vanno interpretate con riferimento alle finalità alle quali sono dirette. Pertanto, esse non possono ritenersi violate da qualsiasi modificazione rispetto all’accusa originaria, ma soltanto nel caso in cui la modificazione dell’imputazione pregiudichi la possibilità di difesa dell’imputato. In altri termini, per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione, da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa (Sez. U, n. 36551 del 15/07/2010, Carelli, Rv. 248051).

Su tali basi, la violazione del principio in questione sussiste solo quando, nella ricostruzione del fatto posta a fondamento della decisione, la struttura dell’imputazione sia modificata quanto alla condotta, al nesso causale ed all’elemento soggettivo del reato, al punto che, per effetto delle divergenze introdotte, la difesa apprestata dall’imputato non abbia potuto utilmente sostenere la propria estraneità ai fatti criminosi globalmente considerati (Sez. 6, n. 34879 del 10/01/2007, Sartori e altri, Rv. 237415; Sez. 6, n. 12175 del 21/01/2005, Tarricone e altri, Rv. 231483; Sez. 1, n. 4655 del 10/12/2005, Addis, Rv. 230771; Sez. 6, n. 40538 del 6/02/2004, Lombardo, Rv. 229950). E dunque, ai fini della valutazione di corrispondenza tra pronuncia e contestazione di cui all’art. 521 cod. proc. pen. deve tenersi conto non solo del fatto descritto in imputazione, ma anche di tutte le ulteriori risultanze probatorie portate a conoscenza dell’imputato e che hanno formato oggetto di sostanziale contestazione, sicché questi abbia avuto modo di esercitare le sue difese sul materiale probatorio posto a fondamento della decisione (Sez. 6, n. 47527 del 13/11/2013, Di Guglielmi e altro, Rv. 257278; Sez. 6, n. 5890 del 22/01/2013, Lucera e altri, Rv. 254419; Sez. 3, n. 15655 del 27/02/2008, Fontanesi, Rv. 239866).

Nel corso del giudizio di primo grado, infatti, il disturbo recato ai residenti dalla somministrazione di musica a volume altissimo, ha costituito oggetto delle dichiarazioni di numerosissimi testimoni, che la difesa dell’imputato ha potuto liberamente contro-esaminare, così consentendosi un pieno esercizio del diritto al contraddittorio. Ne consegue, dunque, alla luce dei principi prima richiamati che, anche sotto tale profilo, le censure difensive devono ritenersi infondate, nessuna violazione del diritto di difesa essendo configurabile nel caso di specie, avendo l’imputato potuto pienamente confrontarsi, in chiave dialettica e critica, con le contestazioni mossegli nel corso del giudizio.

4. Sulla base delle considerazioni che precedono, il ricorso deve essere rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

PER QUESTI MOTIVI

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 18/01/2017.

Omesso versamento I.V.A., confermata la “linea dura”: forza maggiore solo nel caso di assoluta impossibilità ad adempiere l’obbligazione tributaria. Cass. Pen., Sez. III, 10.11.2016 n. 47250

La Corte di Cassazione, con la sentenza della Terza Sezione Penale del 10.11.2016, n. 47250 (udienza del 21.06.2016), conferma l’orientamento più restrittivo, secondo cui la mera difficoltà nell’adempimento dell’obbligazione tributaria non integra forza maggiore , la quale si concretizza esclusivamente in caso di assoluta impossibilità a porre in essere il comportamento omesso, affermando che:

  1. il margine di scelta esclude sempre la forza maggiore, in quanto non esclude la suitas della condotta;
  2. la mancanza di provvista necessaria all’adempimento dell’obbligazione tributaria penalmente rilevante non può essere addotta a sostegno della forza maggiore quando sia comunque il frutto di una scelta/politica imprenditoriale volta a fronteggiare una crisi di liquidità;
  3. non si può invocare la forza maggiore quando l’inadempimento penalmente sanzionato sia stato con-causato dal mancato pagamento delle singole scadenze mensili e dunque da una situazione di illegittimità;
  4. l’inadempimento tributario penalmente rilevante può essere attribuito a forza maggiore solo quando derivi da fatti non imputabili all’imprenditore che non ha potuto tempestivamente porvi rimedio per cause indipendenti dalla sua volontà e che sfuggono al suo dominio finalistico.

Di seguito il testo delle motivazioni.

* * *

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSI Elisabetta – Presidente –

Dott. DE MASI Oronzo – Consigliere –

Dott. MANZON Enrico – Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –

Dott. DI STASI Antonella – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

D.N., nato a (omissis) il xx/xx/19xx;

avverso la sentenza del 14/05/2015 della Corte di Appello di Campobasso;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott.ssa DI STASI Antonella;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.ssa FILIPPI Paola che ha concluso chiedendo la declaratoria di inammissibilità del ricorso.

Svolgimento del processo

1. Con sentenza del 14.5.2015, la Corte di Appello di Campobasso confermava la sentenza del 17.10.2014 del Tribunale di Campobasso che aveva dichiarato D.N. responsabile dei reati di cui all’art. 81 cpv. c.p. e D.Lgs. n. 74 del 2000, 10-ter – perchè nella qualità di titolare e legale rappresentante della omonima ditta ometteva di versare, entro il termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo di imposta successivo, l’imposta sul valore aggiunto relativamente ai periodi di imposta (omissis), (omissis) e (omissis) – e lo aveva condannato alla pena di anni uno e mesi due di reclusione con le conseguenti pene accessorie.

2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione D.N., per il tramite del difensore di fiducia, articolando un unico complesso motivo di seguito enunciato nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1.

Il ricorrente deduce che, pur non disconoscendo di aver posto in essere la condotta omissiva contestata, ciò era avvenuto non per mancanza di volontà di adempiere ai propri doveri con il fisco ma perchè impossibilitato a farlo per causa di forza maggiore dovuta non solo alle condizioni di precarietà in cui era costretto a vivere ma anche e soprattutto perchè non aveva mai incassato le esorbitanti somme sulle quale versare l’IVA per essere un semplice “prestanome”. Argomenta, quindi, che risulta evidente l’insussistenza dell’elemento psicologico del reato contestato.

Aggiunge che la crisi di liquidità configura una sorta di forza maggiore che interrompe il nesso psichico e che, nella specie, si è trattato proprio di una “evasione di sopravvivenza”.

Deduce, poi, che l’affermazione di responsabilità è stata fondata nei due gradi di giudizio su una istruttoria monca, sulle sole dichiarazioni dei testi di accusa ed in assenza di prove documentali.

Deduce, infine, la violazione del diritto di difesa, in quanto la Corte di appello disattendeva una istanza di rinvio per legittimo impedimento corredata e giustificata da apposita documentazione.

Chiede, pertanto, assoluzione perchè il fatto non sussiste, per carenza dell’elemento psicologico o con altra formula ampia.

Motivi della decisione

1. Il ricorso va dichiarato inammissibile.

2. Il primo motivo è manifestamente infondato.

Con la sentenza n. 37424/2013 le Sezioni Unite hanno ribadito che il reato in esame è punibile a titolo di dolo generico.

Per la commissione del reato, basta, dunque, la coscienza e volontà di non versare all’Erario le ritenute effettuate nel periodo considerato e la prova del dolo è insita, in genere, nella presentazione della dichiarazione annuale, dalla quale emerge quanto è dovuto a titolo di imposta, e che deve, quindi, essere “saldato o almeno contenuto” sotto la soglia di punibilità nel termine lungo previsto. Con l’effetto che se il debito verso il fisco relativo ai versamenti IVA è collegato al compimento delle singole operazioni imponibili, ogni qualvolta il soggetto d’imposta effettua tali operazioni riscuote già (dall’acquirente del bene o del servizio) l’IVA dovuta e deve, quindi, tenerla accantonata per l’Erario, organizzando le risorse disponibili in modo da poter adempiere all’obbligazione tributaria. Il D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10-ter estende evidentemente questa esigenza di organizzazione su scala annuale.

Non può, pertanto, essere invocata, per escludere la colpevolezza, la crisi di liquidità del soggetto attivo al momento della scadenza del termine, ove non si dimostri che la stessa non dipenda dalla scelta (protrattasi, in sede di prima applicazione della norma, nella seconda metà del (omissis)) di non far debitamente fronte alla esigenza predetta organizzativa (per l’esclusione del rilievo scriminante di impreviste difficoltà economiche in sè considerate v., in riferimento alla parallela norma dell’art. 10-bis, Sez. 3, n. 10120 del 01/12/2010, dep. 2011, Provenzale).

Questa Corte ha ulteriormente precisato che è necessario che siano assolti, sul punto, precisi oneri di allegazione che devono investire non solo l’aspetto della non imputabilità al contribuente della crisi economica che improvvisamente avrebbe investito l’azienda, ma anche la circostanza che detta crisi non potesse essere adeguatamente fronteggiata tramite il ricorso ad idonee misure da valutarsi in concreto.

Occorre cioè la prova che non sia stato altrimenti possibile per il contribuente reperire le risorse economiche e finanziarie necessarie a consentirgli il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, dirette a consentirgli di recuperare, in presenza di un’improvvisa crisi di liquidità, quelle somme necessarie ad assolvere il debito erariale, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà e ad egli non imputabili (Sez. 3, 9 ottobre 2013, n. 5905/2014; Sez. 3, n. 15416 del 08/01/2014, Tonti Sauro; Sez. 3, n. 5467 del 05/12/2013, Mercutello, Rv. 258055, Sez.3, n. 43599 del 09/09/2015, dep. 29/10/2015, Rv. 265262).

Poichè la forza maggiore postula la individuazione di un fatto imponderabile, imprevisto ed imprevedibile, che esula del tutto dalla condotta dell’agente, tanto da rendere ineluttabile il verificarsi dell’evento, non potendo ricollegarsi in alcun modo ad un’azione od omissione cosciente e volontaria dell’agente, questa Suprema Corte ha sempre escluso, quando la specifica questione è stata posta, che le difficoltà economiche in cui versa il soggetto agente possano integrare la forza maggiore penalmente rilevante. (Sez. 3, n. 4529 del 04/12/2007, Cairone, Rv. 238986; Sez. 1, n. 18402 del 05/04/2013, Giro, Rv. 255880; Sez. 3, n. 24410 del 05/04/2011, Bolognini, Rv. 250805; Sez. 3, n. 9041 del 18/09/1997, Chiappa, Rv. 209232; Sez. 3, n. 643 del 22/10/1984, Bottura, Rv. 167495; Sez. 3, n. 7779 del 07/05/1984, Anderi, Rv. 165822).

Costituisce corollario di queste affermazioni il fatto che nei reati omissivi integra la causa di forza maggiore l’assoluta impossibilità, non la semplice difficoltà di porre in essere il comportamento omesso (Sez. 6, n. 10116 del 23/03/1990, Iannone, Rv. 184856).

Ne consegue che: a) il margine di scelta esclude sempre la forza maggiore perchè non esclude la suitas della condotta; b) la mancanza di provvista necessaria all’adempimento dell’obbligazione tributaria penalmente rilevante non può pertanto essere addotta a sostegno della forza maggiore quando sia comunque il frutto di una scelta/politica imprenditoriale volta a fronteggiare una crisi di liquidità; c) non si può invocare la forza maggiore quando l’inadempimento penalmente sanzionato sia stato con-causato dal mancato pagamento delle singole scadenze mensili e dunque da una situazione di illegittimità; d) l’inadempimento tributario penalmente rilevante può essere attribuito a forza maggiore solo quando derivi da fatti non imputabili all’imprenditore che non ha potuto tempestivamente porvi rimedio per cause indipendenti dalla sua volontà e che sfuggono al suo dominio finalistico (Sez. 3, n. 8352 del 24/06/2014, dep. 25/02/2015, Rv. 263128).

Nel caso in esame, la deduzione riguardante la crisi economica è generica e in fatto e non reca, in particolare, indicazioni specifiche nè concrete atte a ravvisare una reale impossibilità incolpevole all’adempimento ovvero a ricondurre la causa esclusiva dell’inadempimento a condotte tenute prima del secondo semestre del (omissis).

3. Il secondo motivo è inammissibile; ne va, infatti, rilevata la aspecificità ai sensi degli artt. 591 e 581 c.p.p..

Il ricorrente si limita a censurare genericamente la sentenza resa dal giudice di secondo grado, allegando che la Corte territoriale non avrebbe valutato il compendio probatorio, le cui risultanze escluderebbero la sua responsabilità, e senza indicare alcun elemento di concretezza al riguardo.

Il vizio risulta diretto ad indurre la rivalutazione del compendio probatorio, senza l’indicazione di specifiche questioni in astratto idonee ad incidere sulla capacità dimostrativa delle prove raccolte.

Il vizio di motivazione per superare il vaglio di ammissibilità non deve essere diretto a censurare genericamente la valutazione di colpevolezza, ma deve invece essere idoneo ad individuare un preciso difetto del percorso logico argomentativo offerto dalla Corte di merito, sia esso identificabile come illogicità manifesta della motivazione, sia esso inquadrabile come carenza od omissione argomentativa; quest’ultima declinabile sia nella mancata presa in carico degli argomenti difensivi, sia nella carente analisi delle prove a sostegno delle componenti oggettive e soggettive del reato contestato.

Il perimetro della giurisdizione di legittimità è, infatti, limitato alla rilevazione delle illogicità manifeste e delle carenze motivazionali, ovvero di vizi specifici del percorso argomentativo, che non possono dilatare l’area di competenza della Cassazione alla rivalutazione dell’interno compendio indiziario. Le discrasie logiche e le carenze motivazionali eventualmente rilevate per essere rilevanti devono, inoltre, avere la capacità di essere decisive, ovvero essere idonee ad incidere il compendio indiziario, incrinandone la capacità dimostrativa.

4. Il terzo motivo è inammissibile.

Il ricorrente lamenta il mancato accoglimento di istanza di rinvio per legittimo impedimento e la violazione del diritto di difesa per essere stata la sentenza emessa in assenza dell’imputato e del difensore, senza nulla specificare in ordine al contenuto e fondamento della istanza e della correlata documentazione nonchè ai termini del diniego della stessa.

Esso, quindi, si caratterizza per assoluta genericità, integra la violazione dell’art. 581 c.p.p., lett. c), che nel dettare, in generale, quindi anche per il ricorso per cassazione, le regole cui bisogna attenersi nel proporre l’impugnazione, stabilisce che nel relativo atto scritto debbano essere enunciati, tra gli altri, “I motivi, con l’indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta”; violazione che, ai sensi dell’art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c), determina, per l’appunto, l’inammissibilità dell’impugnazione stessa (cfr. Sez. 6, 30.10.2008, n. 47414, rv. 242129; Sez. 6, 21.12.2000, n. 8596, rv. 219087).

Inoltre, la deduzione contrasta con il contenuto della sentenza impugnata, nella quale si dà atto, invece, della presenza all’udienza di discussione del gravame del difensore dell’imputato che rassegnava le conclusioni chiedendo l’accoglimento dell’appello.

5. Consegue, pertanto, la declaratoria di inammissibilità del ricorso.

6. Essendo il ricorso inammissibile e, a norma dell’art. 616 c.p.p., non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13.6.2000), alla condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura ritenuta equa indicata in dispositivo.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.500,00 in favore della Cassa delle Ammende.

Così deciso in Roma, il 21 giugno 2016.

Depositato in Cancelleria il 10 novembre 2016.