La disciplina speciale di cui agli artt. 104-bis disp. att. c.p.p. e 55 d.lgs. n. 159/2011 non consente la divisione endoesecutiva. Trib. Reggio Emilia ord. 27.02.2021 dott.ssa Sommariva

La specialità della disciplina posta dagli artt. 104-bis disp. att. c.p.p. e 55 d.lgs. n. 159 del 2011 non permette l’applicazione delle norme codicistiche che regola l’espropriazione dei beni indivisi, in particolare la disciplina relativa alla divisione.

Il testo dell’ordinanza 27.02.2021 del Tribunale di Reggio Emilia è scaricabile qui.

Profili intertemporali del c.d. “Spazzacorrotti”: non infondate le questioni di legittimità costituzionale. Cass. pen., sez. VI, 20.03.2019, n. 12541

La Corte di Cassazione, pur dichiarandola non rilevante nel caso concreto, ha affermato che non pare manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 1, lett. b), l. n. 3/2019, nella parte in cui inserisce i reati contro la P.A. tra quelli “ostativi” ai sensi dell’art. 4-bis l. n. 354/1975, senza prevedere un regime intertemporale.

Di seguito le motivazioni integrali della sentenza.

* * *

SENTENZA

sul ricorso proposto da

F.M. nato a Roma il 23/01/1951

avverso la sentenza del 13/06/2018 emessa dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma

visti gli atti, la sentenza impugnata e il ricorso;

udita la relazione svolta dal consigliere Alessandra Bassi;

lette le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Franca Zacco, che ha concluso chiedendo che la sentenza sia annullata limitatamente alla condanna al pagamento della riparazione pecuniariaexart. 322-quatercod. pen.

RITENUTO IN FATTO

1. Con il provvedimento in epigrafe, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma ha applicato nei confronti di M.F., su sua richiesta, la pena di anni due, mesi nove e giorni dieci di reclusione in relazione ai reati di cui agli artt. 110, 319 e 321 cod. pen. sub capo 1) e di cui agli artt. 319, 319-ter e 321 cod. pen. sub capo 2). Con la medesima sentenza, il G.i.p. ha disposto la pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici per la durata di anni cinque ex art. 371-bis cod. pen. e la confisca della somma di 330.000,00 euro ai sensi dell’art. 322-ter cod. pen. ed ha inoltre ordinato all’imputato di pagare alla “ASL Roma 1” la somma di 330.000,00 euro, a titolo di riparazione pecuniaria ex art. 322-quater cod. pen.

2. Con atto a firma dei due difensori di fiducia, M.F. ha proposto ricorso avverso il provvedimento e ne ha chiesto l’annullamento con limitato riferimento alla disposta condanna al pagamento della riparazione pecuniaria per violazione di legge penale e processuale.

La difesa ha evidenziato al riguardo come il giudice abbia applicato una “pena illegale”, là dove l’art. 322-quater cod. pen. prevede la riparazione pecuniaria esclusivamente in caso di “sentenza” propriamente detta – resa cioè all’esito del giudizio ordinario o abbreviato – e non anche di applicazione della pena.

2.1. In data 27 febbraio 2019, la difesa del F. ha presentato motivi nuovi ex art. 611 cod. proc. pen. con i quali, sotto diversi profili, ha sollecitato questa Corte, «riconosciuta la propria competenza a conoscere della fase esecutiva del presente procedimento», a sollevare la questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 1, lett. b), legge 9 gennaio 2019, n. 3, nella parte in cui ha inserito i reati contro la pubblica amministrazione tra quelli “ostativi” alla concessione di alcuni benefici penitenziari, ai sensi dell’art. 4-bis legge 26 luglio 1975, n. 354, per rilevato contrasto con gli artt. 3, 24, 25, comma secondo, 27, comma terzo, e 117 Cost., 7 CEDU, nella parte in cui non prevede un regime intertemporale.

A sostegno della deduzione, la difesa rileva, sotto un primo aspetto, come – avendo riguardo al combinato disposto degli artt. 656, comma 9, lett. a), cod. proc. pen. e 4-bis legge 26 luglio 1975, n. 354, in relazione ai delitti di cui agli artt. 319, 319-ter e 321 cod. pen. (contestati al F.) – in quanto inseriti nel novero dei reati di cui allo stesso art. 4-bis in virtù della novella con legge 9 gennaio 2019, n. 3 -, non sia più possibile sospendere l’ordine di esecuzione ai fini della richiesta di misure alternative alla detenzione in stato di libertà. In assenza di una disposizione transitoria regolativa dei limiti temporali di applicazione della nuova disciplina, con il passaggio in giudicato della sentenza di patteggiamento, l’emissione dell’ordine di carcerazione sarà pertanto “obbligata”, con una modifica peggiorativa del trattamento penitenziario. Modifica peggiorativa “a sorpresa” atteso che, al momento in cui avanzava la richiesta ex artt. 444 e 445 cod. proc. pen., F. poteva ragionevolmente confidare che la sanzione sarebbe rimasta nei limiti di operatività delle misure alternative e dunque “senza assaggio di pena”. Evidenzia, pertanto, come tale modifica in itinere delle “regole del gioco”, in quanto del tutto imponderabile all’atto dell’opzione in rito, si ponga in evidente contrasto con l’art. 7 CEDU, come interpretato nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo in situazioni analoghe – rilevante ai fini dell’art. 117 Cost. -, là dove viola il principio dell’affidamento quanto alla prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie (v. per tutte Grande Camera 21 dicembre 2013, Del Rio Prada c. Spagna).

Sotto diverso aspetto, il ricorrente pone in luce come la novella normativa, nel modificare le modalità di esecuzione della pena – tradizionalmente ritenute avere valenza meramente processuale -, abbia nondimeno inciso direttamente sul contenuto afflittivo della pena e quindi sulla stessa “natura della sanzione”, di fatto tramutata da “alternativa” in “detentiva”. Tenuta presente l’impostazione “sostanzialistica” ed “antiformalista” ormai affermatasi nella giurisprudenza della Corte EDU in relazione ad istituti che presentano marcati tratti di analogia con il peculiare regime esecutivo imposto per i reati di cui al citato art. 4-bis (richiamata nuovamente la decisione della Grande Camera del 21 dicembre 2013, Del Rio Prada c. Spagna), i mutamenti con effetti concretamente peggiorativi sul regime della sanzione inflitta, devono ritenersi avere natura, non processuale, ma sostanziale, con conseguente inapplicabilità retroattiva.

Infine, la difesa censura la costituzionalità dello stesso inserimento nel novero dei reati soggetti allo speciale regime di cui al citato art. 4-bis dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione (in particolare, di quelli di cui agli art. 319, 319-ter e 321 cod. pen. che vengono in rilievo nella specie), in quanto in chiaro contrasto con la funzione rieducativa della pena.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il motivo dedotto con il ricorso principale è fondato per le ragioni di seguito esposte.

2. Giova premettere che l’art. 322-quater cod. pen., introdotto con la legge 27 maggio 2015, n. 69, prevede che “Con la sentenza di condanna per i reati previsti dagli articoli 314, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater, 320, 321 e 322-bis, è sempre ordinato il pagamento di una somma equivalente al prezzo o al profitto del reato a titolo di riparazione pecuniaria in favore dell’amministrazione lesa dalla condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio, restando impregiudicato il diritto al risarcimento del danno”.

Occorre precisare come tale formulazione costituisca il frutto della modifica recentemente apportata con la legge 9 gennaio 2019, n. 3, là dove – ai fini della determinazione del quantum della riparazione pecuniaria – ha sostituito il riferimento a “quanto indebitamente ricevuto” dal funzionario pubblico con l’attuale riferimento alla”somma equivalente al prezzo o al profitto del reato”.

2.1. La riparazione pecuniaria ex art. 322-quater cod. pen. ha natura esclusivamente economica e si parametra al vantaggio di natura patrimoniale derivato dalla condotta (profitto) ovvero al compenso dato o promesso per commettere il reato (prezzo) (Sez. U del 03/07/1996, n. 9149, Chabni Samir, Rv. 205707). La riparazione va corrisposta in favore dell’amministrazione cui appartiene il pubblico agente, a prescindere e, se del caso, in aggiunta rispetto al risarcimento” del danno cagionato al prestigio ed al buon funzionamento della pubblica amministrazione.

L’istituto presenta tratti di indubbio parallelismo con la “riparazione pecuniaria” prevista dall’art. 12 della legge 18 febbraio 1948, n. 47, applicabile in caso di diffamazione commessa col mezzo della stampa, là dove si applica “oltre al risarcimento dei danni ai sensi dell’art. 185 cod. pen.”.

Come si legge nei lavori preparatori della legge 27 maggio 2015, n. 69, il meccanismo della riparazione del danno, fissata in un’entità corrispondente a quanto indebitamente ricevuto, che deve essere versata a vantaggio dell’amministrazione di appartenenza, rappresenta una sanzione per l’infedeltà del pubblico ufficiale e per il danno cagionato all’amministrazione di appartenenza, con spiccata funzione dissuasiva.

In linea con l’intentio legisdel legislatore e con le indicazioni della migliore dottrina, nel lasciare del tutto impregiudicato il diritto della persona offesa al risarcimento del danno, a prescindere dalla denominazione, la riparazione muove dunque nella chiara prospettiva di realizzare un rafforzamento dell’armamentario sanzionatorio posto a tutela del buon andamento della pubblica amministrazione.

Deve, pertanto, ritenersi che la riparazione pecuniaria costituisca – come quella prevista dal citato art. 12 della legge sulla stampa – una “sanzione civile accessoria” alla condanna per i reati-presupposto di cui al catalogo dello stesso art. 322-quater cod. pen. L’istituto si presenta sotto forma di una “tipica” obbligazione civilistica – là dove ha un contenuto squisitamente economico ed è destinata alla persona offesa -, ma – giusta l’applicazione in termini di obbligatorietà, da parte del giudice penale, a prescindere dal danno civilisticamente inteso e dall’azione risarcitoria della parte civile, anche in aggiunta al risarcimento del danno – assume anche un’indubbia connotazione punitiva.

Stante la natura latu sensupunitiva della riparazione pecuniaria, la relativa applicazione – in assenza dei presupposti di legge – è certamente riportabile all’alveo della “pena illegale”, dando, dunque, luogo ad vizio coltivabile dinanzi a questa Corte ai sensi dell’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen.

3. Tanto premesso quanto alla natura di “sanzione civile accessoria” della riparazione pecuniaria di cui all’art. 322-quater cod. pen. ed alla sindacabilità nella sede di legittimità dell’applicazione di essa in violazione di legge, occorre rilevare, sotto diverso aspetto, come l’art. 322-quater cod. pen. preveda espressamente che la riparazione pecuniaria sia sempre ordinata con la “sentenza di condanna”.

Orbene, ritiene il Collegio – condividendo l’assunto difensivo – che detta espressione debba ritenersi riferita al provvedimento conclusivo del giudizio ordinario o abbreviato, ma non anche alla sentenza di applicazione della pena che, nel prescindere dall’accertamento positivo della penale responsabilità dell’imputato e giusta l’espressa previsione dell’art. 445, comma 2, cod. proc. pen., è “solo” equiparata ad una pronuncia di condanna.

Conduce a tale conclusione anche il dato sistematico, là dove plurime disposizioni del codice penale – soprattutto quelle di recente introduzione anche nello specifico campo dei reati contro la pubblica amministrazione – confermano come il legislatore consideri eterogenea la “condanna” rispetto alla “applicazione della pena” ai fini delle ulteriori conseguenze penali derivanti dal reato.

Così, in particolare, le norme in tema di confisca obbligatoria di cui agli artt. 322-ter, 466-bis e 644, ultimo comma, cod. pen., le quali prevedono espressamente l’applicazione della misura di sicurezza patrimoniale anche in caso di sentenza di patteggiamento, in specifica deroga del disposto dell’art. 445, comma 1, cod. proc. pen.

Non può, inoltre, sfuggire come l’art. 322-quater cod. pen. sia stato inserito nel codice penale – nell’ambito del Titolo II, Capo I, dedicato alla disciplina dei delitti dei pubblici ufficiali contro la P.A. – immediatamente di seguito all’art. 322-ter che fa espresso riferimento, oltre alla “condanna” anche alla “sentenza di applicazione della pena”.

Si veda ancora il disposto dell’art. 609-nonies comma 1, cod. pen., nel quale il legislatore ha testualmente previsto l’applicazione delle pene accessorie e degli altri effetti penali in caso di “condanna” e di “applicazione della pena su richiesta delle parti”.

Tirando le fila delle considerazioni che precedono, non è revocabile in dubbio la netta distinzione, ai fini delle varie conseguenze sanzionatorie ed effetti penali, fra “condanna” propriamente detta e “sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti”.

Delineato il discrimenfra “condanna” e “sentenza di applicazione della pena”, ritiene allora il Collegio che la riparazione pecuniaria in oggetto – in quanto prevista soltanto per il caso di “condanna” – non possa trovare applicazione non solo nel caso di patteggiamento ordinario, ma anche in caso di patteggiamento c.d. allargato.

4. Né l’applicabilità della riparazione pecuniaria in caso di patteggiamento c.d. allargato può desumersi a contrariisdalla circostanza che, soltanto in caso di patteggiamento ordinario ex art. 445, comma 1, cod. proc. pen., l’imputato sia esente dall’applicazione delle “spese del procedimento”, “pene accessorie” e “misure di sicurezza” (salvo l’art. 240 cod. pen.).

Si è già posto in rilievo come la riparazione pecuniaria di cui all’art. 322-quater presenti caratteristiche del tutto peculiari, che la pongono su di un piano di eterogeneità rispetto ai tradizionali istituti “penalistici” e che ne rendono problematico l’inquadramento nelle categorie delle “pene accessorie” o delle “misure di sicurezza”, costituendo essa piuttosto – come già rilevato – una sanzione di tipo civilistico, sui generisnel panorama del nostro codice penale. Detta connotazione ne impedisce allora l’applicazione al di fuori degli specifici casi nei quali essa sia espressamente prevista, in ossequio ai principi di legalità e di tassatività in materia penale.

Una conferma – sia pure indiretta – della inapplicabilità della riparazione pecuniaria in entrambe le ipotesi di patteggiamento si trae dall’art. 444, comma 1-ter, cod. proc. pen. – introdotto con la stessa legge n. 69 del 2015 che ha previsto l’art.322-quater -, là dove, nei procedimenti per i reati contro la pubblica amministrazione contemplati da tale disposizione, ha subordinato expressis verbisl’ammissibilità della richiesta di applicazione della pena”alla restituzione integrale de/prezzo o de/profitto de/reato”. Con ciò, senza fare alcuna menzione – né quale condizione, né quale effetto ulteriore – alla riparazione pecuniaria in favore dell’amministrazione lesa dalla condotta del pubblico agente, fra l’altro, anch’essa commisurata “al prezzo o al profitto del reato” (in eventuale aggiunta al risarcimento del danno).

Non può allora sfuggire l’irragionevolezza di un’ermeneusi della norma che – nonostante l’assenza di una previsione espressa dell’applicabilità della riparazione pecuniaria anche in caso di sentenza ex art. 444 cod. proc. pen. (nella forma ordinaria o c.d. allargata) – comportasse l’assoggettamento dell’imputato di taluno dei reati rientranti nel catalogo di cui all’art. 322-quater cod. pen., il quale intendesse appunto definire la propria posizione processuale con il patteggiamento, al doppio versamento di una somma eguale neltantundem(pari appunto al prezzo o al profitto del reato), sia pure a titolo diverso (restitutorio e riparatorio).

Ad ogni modo, stante la già rilevata non univocità della disposizione in oggetto quanto all’applicabilità della riparazione pecuniaria in caso di patteggiamento, non può non farsi ricorso al canone interpretativo generale in materia penale, alla stregua del quale non può che essere privilegiata, fra due possibili opzioni, l’interpretazione in favor rei.

Conclusivamente, deve essere affermato il principio di diritto secondo il quale, in tema di reati contro la pubblica amministrazione, il patteggiamento di una pena detentiva anche nella forma c.d. allargata preclude l’applicazione della riparazione pecuniaria di cui all’art. 322-quater cod. pen., presupponendo essa la pronuncia di una sentenza di “condanna” propriamente detta, cioè resa a seguito di rito ordinario o abbreviato.

5. Passando alla disamina della questione di incostituzionalità dell’art. 6, comma 1, lett. b), legge 9 gennaio 2019, n. 3, là dove ha inserito i reati contro la pubblica amministrazione tra quelli “ostativi” ai sensi dell’art. 4-bis legge 26 luglio 1975, n. 354, senza prevedere un regime intertemporale, giova preliminarmente evidenziare – sul piano dell’ammissibilità del motivo – che, la questione attiene ad una disposizione entrata in vigore in epoca successiva alla pronuncia della sentenza impugnata ed al deposito del ricorso originario, di tal che non avrebbe potuto essere prospettata dal F. all’atto della presentazione dell’impugnazione. Ad ogni modo, si tratta di una sollecitazione rivolta a questa stessa Corte a sollevare la questione.

Come si è già anticipato, il ricorrente sollecita l’incidente di costituzionalità sotto un duplice profilo: in relazione, da un lato, all’omessa previsione di un regime di diritto intertemporale; dall’altro lato, all’inserimento dei reati contro la pubblica amministrazione (in particolare quelli che vengono in rilievo con riferimento alla posizione del F.) fra i “reati ostativi” contemplati dall’art. 4-bis ord. penit.

6. La questione di incostituzionalità concernente l’assenza di un regime di diritto intertemporale, per quanto non manifestamente infondata, risulta nondimeno non rilevante nella specie, per le ragioni esposte nel prosieguo.

6.1. Può convenirsi con il ricorrente che l’omessa previsione di una disciplina transitoria circa l’applicabilità della disposizione (come novellata) possa suscitare fondati dubbi di incostituzionalità in relazione ai riverberi processuali sull’ordine di esecuzione, in quanto non più suscettibile di sospensione in forza della previsione dell’art. 656, comma 9, cod. proc. pen.

Va difatti considerato come, secondo il disposto della lettera a) del comma 9 dell’art. 656, la sospensione dell’ordine di esecuzione della sentenza di condanna ad una pena detentiva non superiore a quattro anni (giusta anche la declaratoria d’incostituzionalità con sentenza della C. Cost. 2 marzo 2018, n. 41) per il termine di trenta giorni al fine di consentire al condannato in stato di libertà di avanzare istanza di concessione di una delle misure alternative previste dalla legge n. 354 del 1975 – sospensione prevista dal comma 5 dello stesso articolo – non possa essere disposta nei confronti dei condannati per i delitti di cui al citato art. 4-bis.

Orbene, avuto riguardo al “diritto vivente”, quale si connota alla luce del diritto positivo e della lettura giurisprudenziale fino ad ora consolidata a seguito della decisione delle Sezioni Unite del 2006, le disposizioni concernenti l’esecuzione delle pene detentive e le misure alternative alla detenzione, non riguardando l’accertamento del reato e l’irrogazione della pena, ma soltanto le modalità esecutive della stessa, sono considerate norme penali processuali e non sostanziali e, pertanto, ritenute soggette – in assenza di una specifica disciplina transitoria – al principio tempus regit actume non alle regole dettate in materia di successione di norme penali nel tempo dall’art. 2 cod. pen. e dall’art. 25 Cost. (Sez. U, n. 24561 del 30/05/2006, P.M. in proc. A., Rv. 233976; Sez. 1, n. 46649 del 11/11/2009, Nazar, Rv. 245511; Sez. 1, n. 11580 del 05/02/2013, Schirato, Rv. 255310). In applicazione di tale interpretazione, con riferimento ai reati ascritti al ricorrente, non sarebbe più possibile disporre la sospensione dell’esecuzione ai sensi del combinato disposto dell’art. 656, comma 9, cod. proc. pen. in base all’art. 4-bis ord. penit. (come novellato nel gennaio 2019).

6.2. D’altra parte, non è revocabile in dubbio che, nella più recente giurisprudenza della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo, ai fini del riconoscimento delle garanzie convenzionali, i concetti di illecito penale e di pena abbiano assunto una connotazione “antiformalista” e “sostanzialista”, privilegiandosi alla qualificazione formale data dall’ordinamento (all'”etichetta” assegnata), la valutazione in ordine al tipo, alla durata, agli effetti nonché alle modalità di esecuzione della sanzione o della misura imposta.

Significativa in tale senso è la pronuncia resa nel caso Del Rio Prada contro Spagna (del 21 ottobre 2013), là dove la Grande Camera della Corte EDU, nel ravvisare una violazione dell’art. 7 della Convenzione, ha riconosciuto rilevanza anche al mutamento giurisprudenziale in tema di un istituto riportabile alla liberazione anticipata prevista dal nostro ordinamento in quanto suscettibile di comportare effetti peggiorativi, giungendo dunque ad affermare che, ai fini del rispetto del “principio dell’affidamento” del consociato circa la “prevedibilità della sanzione penale”, occorre avere riguardo non solo alla pena irrogata, ma anche alla sua esecuzione (sebbene – in quel caso – l’istituto avesse diretto riverbero sulla durata della pena da scontare).

6.3. Alla luce di tale approdo della giurisprudenza di Strasburgo, non parrebbe manifestamente infondata la prospettazione difensiva secondo la quale l’avere il legislatore cambiato in itinere le “carte in tavola” senza prevedere alcuna norma transitoria presenti tratti di dubbia conformità con l’art. 7 CEDU e, quindi, con l’art. 117 Cost., là dove si traduce, per il F., nel passaggio – “a sorpresa” e dunque non prevedibile – da una sanzione patteggiata “senza assaggio di pena” ad una sanzione con necessaria incarcerazione, giusta il già rilevato operare del combinato disposto degli artt. 656, comma 9 lett. a), cod. proc. pen. e 4-bis ord. penit.

D’altronde, in precedenza, il legislatore aveva adottato disposizioni transitorie finalizzate a temperare il principio di immediata applicazione delle modifiche all’art.4-bis ord. penit., quali quelle contenute nell’art. 4 d.l. n. 13 maggio 1991, n. 152, e nell’art. 4, comma 1, I. 23 dicembre 2002, n. 279 (che inseriva i reati di cui agli artt. 600, 601 e 602 cod. pen. nell’art. 4-bis cit.), limitandone l’applicabilità ai soli reati commessi successivamente all’entrata in vigore della legge.

7. Se non che, secondo la stessa prospettazione del ricorrente, i delineati profili di incostituzionalità pertengono, a ben vedere, non al patto stipulato fra le parti e ratificato dal giudice, né alla pena applicata su richiesta – di per sé validi e “indifferenti” alla novella normativa del 2019 -, bensì alla mera esecuzione della sanzione, incidendo, come si è già detto, sulla sospendibilità, rectiusnon sospendibilità, dell’ordine di esecuzione.

Conferma evidente di tale assunto si trae dalla stessa premessa del ricorrente, là dove sollecita questa Corte a promuovere l’incidente di costituzionalità “riconosciuta la propria competenza a conoscere della fase esecutiva del presente procedimento”. Con ciò, trascurando di considerare come, a norma 665 cod. proc. pen., la Corte di cassazione non sia mai giudice dell’esecuzione del provvedimento oggetto di impugnazione.

In altri termini, la questione di incostituzionalità prospettata afferisce non alla sentenza di patteggiamento oggetto del presente ricorso, ma all’esecuzione della pena applicata con la stessa sentenza, dunque ad uno snodo processuale diverso nonché logicamente e temporalmente successivo, di talché ai fini della decisione di questa Corte non rileva, potendo se del caso essere riproposta in sede di incidente di esecuzione.

8. In conclusione, in accoglimento del motivo dedotto con il ricorso principale, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio, nella parte in cui ha ordinato all’imputato, ai sensi dell’art. 322-quater cod. pen., di pagare alla ASL Roma 1 la somma di euro 330.00 a titolo di riparazione pecuniaria.

Vanno invece rigettate le questioni di costituzionalità, fatte valere con i motivi nuovi, perché non rilevanti.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla disposta riparazione pecuniaria ex art. 322-quater cod. pen., che elimina.

Così deciso il 14 marzo 2019

Il consigliere estensore Il Presidente

Alessandra Bassi Giorgio Fidelbo

Non fondate le questioni di legittimità costituzionale della c.d. Legge Merlin

Di seguito il comunicato stampa diramato dalla Consulta in relazione alle questioni di legittimità della c.d. Legge Merlini, sollevate dalla Corte di Appello di Bari.

Di seguito il comunicato stampa, reperibile nella sua versione originale qui.

Si rimette il testo dell’ordinanza di rimessione degli atti alla Corte Costituzionale: C. App. Bari, Sez. III pen. ord., 06.0.2018.

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LA PROSTITUZIONE AL TEMPO DELLE ESCORT:LA CONSULTA “SALVA” LA LEGGE MERLIN

La Corte costituzionale, riunita in camera di consiglio, ha deciso le questioni sulla legge Merlin sollevate dalla Corte d’appello di Bari e discusse nell’udienza pubblica del 5febbraio 2019.

In attesa del deposito della sentenza, l’Ufficio stampa della Corte fa sapere che le questioni di legittimità costituzionale riguardanti il reclutamento e il favoreggiamento della prostituzione, puniti dalla legge Merlin, sono state dichiarate non fondate.

Le questioni erano state sollevate con specifico riferimento all’attività di prostituzioneliberamente e consapevolmente esercitata dalle cosiddette escort. I giudici baresi sostenevano, in particolare, che la prostituzione è un’espressione della libertà sessuale tutelata dalla Costituzione e che, pertanto, punire chi svolge un’attività di intermediazione tra prostituta e cliente o di favoreggiamento della prostituzione equivarrebbe a compromettere l’esercizio tanto della libertà sessuale quanto della libertà di iniziativa economica della prostituta, colpendo condotte di terzi non lesive di alcun bene giuridico.

La Corte costituzionale ha ritenuto che non è in contrasto con la Costituzione la scelta di politica criminale operata con la legge Merlin, quella cioè di configurare la prostituzione come un’attività in sé lecita ma al tempo stesso di punire tutte le condotte di terzi che la agevolino o la sfruttino.

Inoltre, la Corte ha ritenuto che il reato di favoreggiamento della prostituzione non contrasta con il principio di determinatezza e tassatività della fattispecie penale.

Roma, 6 marzo 2019

Per i clienti rumorosi, risponde (penalmente) l’esercente. Cass. Pen., Sez. III, 08.05.2017 n. 22142

La Corte di Cassazione, con la sentenza della Terza Sezione Penale dell’08.05.2017, n. 22142 (udienza del 18.01.2017), dopo una completa ricognizione della normativa e della giurisprudenza sull’art. 659 cod. pen. e sulla normativa speciale sul c.d. “inquinamento acustico”, afferma che l’esercente un pubblico esercizio ha l’obbligo di impedire gli schiamazzi o i rumori (eccessivi) prodotti dai clienti, anche all’esterno del locale, potendo ricorrere ai più vari accorgimenti: dagli avvisi alla clientela all’impiego di personale dedicato, dalla somministrazione delle bevande soltanto in recipienti non da asporto, così che le stesse siano consumate all’interno del locale, fino al ricorso all’autorità di polizia o all’esercizio dello ius excludendi.

Di seguito il testo delle motivazioni.

* * *

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE 

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da
G.I., nato a X il XX/XX/19XX,

avverso la sentenza in data 26/02/2016 della Corte d’appello di Trieste
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Carlo Renoldi;
udito il Pubblico Ministero, in persona del sostituto Procuratore generale dott.ssa Marilia di Nardo, che ha concluso chiedendo la pronuncia di una declaratoria di inammissibilità.

RITENUTO IN FATTO

1. I.G. era stato citato a giudizio dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Udine per avere “in diverse circostanze di tempo, e nella sua qualità di gestore del pubblico esercizio M.D.S. composto di due aree, l’una all’insegna M. e l’altra all’insegna M.D.S., sito in Y Via X, non impedendo gli schiamazzi degli avventori che stazionavano all’esterno del predetto esercizio e che si protraevano sino a tarda notte”, creato disturbo al riposo dei residenti nelle vie limitrofe, in particolare ai residenti di Via X, Via Y e Piazza Z”; fatti commessi in Y a partire dal 30/10/2012 ed in permanenza.

1.1. All’esito del giudizio di primo grado G. era stato condannato, con sentenza del Tribunale di Udine, Sezione distaccata di Palmanova in data 31/10/2012, alla pena di un mese e dieci giorni di arresto in quanto riconosciuto colpevole dei reati, unificati dal vincolo della continuazione, di cui agli artt. 81, 40 comma 2 e 659 cod. pen.. E con successiva sentenza in data 26/02/2016 la Corte d’appello di Trieste aveva confermato la pronuncia di primo grado.

2. Avverso la sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione lo stesso G., a mezzo del difensore fiduciario, deducendo tre distinti motivi di censura.

2.1. Con il primo di essi, il ricorrente denuncia, ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e) cod, proc. pen., la erronea applicazione della legge penale in relazione agli artt. 40, comma 1 e 659 cod. pen., per avere la sentenza impugnata erroneamente ascritto all’imputato, gestore di un esercizio pubblico, gli schiamazzi prodotti dagli avventori del medesimo locale all’uscita della discoteca e i rumori derivanti dalle autovetture dei clienti. In particolare, la corte triestina avrebbe per un verso affermato, erroneamente, l’esistenza di un potere di controllo del titolare dell’esercizio anche sulle condotte compiute, all’esterno del locale, dalla propria clientela; e, per altro verso, avrebbe ritenuto insufficienti le misure organizzative adottate da Gasparotto, in quanto inidonee ad impedire l’evento, costituito dal disturbo della tranquillità pubblica.

2.2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce, ex art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen., la manifesta illogicità della motivazione in quanto la decisione sarebbe fondata, non su ragionevoli massime di esperienza, quanto su “mere congetture”, consistenti nell’affermazione, non verificata, che ove G. avesse predisposto un’adeguata segnaletica ovvero un servizio di vigilanza, egli avrebbe impedito il parcheggio delle vetture nelle vie del centro, eliminando i rumori molesti prodotti dai motori delle automobili.

2.3. Con il terzo motivo, il ricorrente deduce, ex art. 606, comma 1, lett. b) e c) cod. proc. pen., l’erronea applicazione della legge penale e l’inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità in relazione al principio di corrispondenza fra l’imputazione e la sentenza, avendo il provvedimento impugnato affermato la responsabilità dell’imputato anche in relazione all’alto volume della musica suonata nell’esercizio pubblico di cui era titolare, ovvero sulla base di un elemento fattuale differente da quanto contestatogli nel capo di imputazione, idoneo ad integrare una differente fattispecie incriminatrice, essendo l’art. 659 cod. pen. una “disposizione a più norme”. Pertanto, ricorrendo una violazione dell’art. 518 cod. proc. pen., la sentenza sarebbe nulla per violazione dell’art. 522 del codice di rito, sia pure soltanto nella parte relativa al fatto nuovo.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è infondato.

2. Giova, preliminarmente, porre in luce come l’art. 659, inserito nel codice penale tra le contravvenzioni concernenti l’ordine e la tranquillità pubblica, preveda due distinte ipotesi di reato: quella di cui al primo comma, che punisce il comportamento di colui il quale “mediante schiamazzi o rumori, ovvero abusando di strumenti sonori o di segnalazioni acustiche ovvero suscitando o non impedendo strepiti di animali, disturba le occupazioni o il riposo delle persone, ovvero gli spettacoli, i ritrovi o i trattenimenti pubblici”; nonché quella di cui al secondo comma, che invece punisce il fatto di “chi esercita una professione o un mestiere rumoroso contro le disposizioni della legge o le prescrizioni dell’Autorità”. Dunque, mentre la prima fattispecie, contemplata dal comma 1, punisce il disturbo della pubblica quiete da chiunque cagionato, peraltro con modalità espressamente e tassativamente determinate, la seconda, disciplinata dal comma 2, punisce le attività rumorose, industriali o professionali, esercitate in difformità dalle prescrizioni di legge o dalle disposizioni dell’autorità (Sez. 3, n. 23529 del 13/05/2014, Ioniez, Rv. 259194).

Controverso è il rapporto tra le due ipotesi di reato, così come quello tra le stesse e la disciplina dettata dall’art. 10, comma 2, della legge 26 ottobre 1995, n. 447 (cd. legge quadro sull’inquinamento acustico), la quale prevede un’ipotesi di illecito amministrativo nel caso in cui “nell’esercizio o nell’impiego di una sorgente fissa o mobile di emissioni sonore” si superino “i valori limite di emissione o di immissione” fissati in conformità al disposto dell’art. 3, comma 1, lettera a) della stessa legge.

2.1. Secondo un primo indirizzo, “il mancato rispetto dei limiti di emissione del rumore stabiliti dal D.P.C.M. 1 marzo 1991 può integrare la fattispecie di reato prevista dall’art. 659, comma secondo, cod. pen., allorquando l’inquinamento acustico è concretamente idoneo a recare disturbo al riposo e alle occupazioni di una pluralità indeterminata di persone, non essendo in tal caso applicabile il principio di specialità di cui all’art. 9 della legge n. 689 del 1981 in relazione all’illecito amministrativo previsto dall’art. 10, comma secondo, della legge n. 447 del 1995” (Sez. 3, n. 15919 in data 8/04/2015, CO.NA.VAR. S.r.l., Rv. 266627; Sez. 3 n. 37184 del 3/07/2014, Torricella, non massimata; Sez. 1, n. 4466 del 5/12/2013, Giovanelli e altro, Rv. 259156; Sez. 1, n. 33413 del 7/06/2012, Girolimetti, Rv. 253483; Sez. 1, n. 1561 del 5/12/2006, Rey ed altro, Rv. 235883; Sez. 1, n. 25103 del 16/04/2004, Amato, Rv. 228244, relativa ad un caso di superamento dei valori-limite di rumorosità prodotta nell’attività di esercizio di una discoteca). Ciò in quanto le due disposizioni sarebbero poste a protezione di beni giuridici diversi: mentre le fattispecie previste dall’art. 659 cod. pen. tutelerebbero la tranquillità pubblica, evitando che le occupazioni e il riposo delle persone possano venire disturbate con schiamazzi o rumori o con altre attività idonee ad interferire nel normale svolgimento della vita privata di un numero indeterminato di persone, con conseguente messa in pericolo del bene della pubblica tranquillità, viceversa, la fattispecie contemplata dall’art. 10, comma 2, della legge n. 447 del 1995, tutelerebbe genericamente la salubrità ambientale e la salute umana, limitandosi a stabilire i limiti di rumorosità delle sorgenti sonore, oltre i quali debba ritenersi sussistente l’inquinamento acustico, sanzionato in via amministrativa in considerazione dei danni che il rumore può produrre sia sul fisico che sulla psiche delle persone.
Secondo un opposto orientamento, il superamento dei limiti di accettabilità di emissioni sonore derivanti dall’esercizio di mestieri rumorosi configurerebbe l’illecito amministrativo di cui all’art. 10, comma 2, legge n. 447 del 1995 (cfr. Sez. 1, n. 530 del 3/12/2004, P.M. in proc. Termini e altro, Rv. 230890; Sez. 3, n. 2875 del 21/12/2006, Roma, Rv. 236091; Sez. 1, n. 48309 del 13/01/2012, Carrozzo e altro, Rv. 254088; Sez. 3, n. 13015 del 31/01/2014, Vazzana, Rv. 258702), atteso che a seguito dell’entrata in vigore della cd. legge quadro sull’inquinamento acustico il comma 2 dell’art. 659 cod. pen. sarebbe stato sostanzialmente abrogato, in applicazione del principio di specialità contenuto nell’art. 9 della legge 24 novembre 1981, n. 689, data la perfetta identità dell’ambito delineato dalla norma codicistica e di quello, di contenuto più ampio, sanzionato, solo in via amministrativa, in forza dell’altra disposizione.
Secondo un indirizzo intermedio, infine, è configurabile l’illecito amministrativo di cui all’art. 10, comma 2, della legge n. 447/1995 ove si verifichi soltanto il superamento dei limiti differenziali di rumore fissati dalle leggi e dai decreti presidenziali in materia; la contravvenzione di cui al comma 1 dell’art. 659, cod. pen., ove il fatto costituivo dell’illecito sia rappresentato da qualcosa di diverso dal mero superamento dei limiti di rumore, per effetto di un esercizio del mestiere che ecceda le sue normali modalità o ne costituisca un uso smodato; quella di cui al comma 2 dell’art. 659 cod. pen. qualora la violazione riguardi altre prescrizioni legali o della Autorità, attinenti all’esercizio del mestiere rumoroso, diverse da quelle impositive di limiti di immissioni acustiche (Sez. 3, n. 25424 del 5/06/2015, Pastore, non nnassimata; Sez. 3, n. 5735 del 21/01/2015, Giuffrè, Rv. 261885; Sez. 3, n. 42026 del 18/09/2014, Claudino, Rv. 260658; Sez. 1, n. 25601 del 19/04/2013, Casella, non massimata; Sez. 1, n. 39852 del 12/06/2012, Minetti, Rv. 253475; Sez. 1, n. 48309 del 13/11/2012, Carrozzo, Rv. 254088; Sez. 1, n. 44167 del 27/10/2009, Fiumara, Rv. 245563; Sez. 1, n. 23866 del 9/06/2009, Valvassore, Rv. 243807).
A favore di questo indirizzo si è rilevato, infatti, come l’affermazione secondo cui l’illecito amministrativo tuteli genericamente la salubrità ambientale sia smentito dal tenore letterale delle disposizioni contenute nella legge n. 447/1995, le quali, secondo l’art. 1, sono dettate per la “tutela dell’ambiente esterno e dell’ambiente abitativo dall’inquinamento acustico”. Tali disposizioni, all’art. 2, comma 1, lett. a), identificano l’inquinamento acustico nella “introduzione di rumore nell’ambiente abitativo o nell’ambiente esterno tale da provocare fastidio o disturbo al riposo ed alle attività umane, pericolo per la salute umana, deterioramento degli ecosistemi, dei beni materiali, dei monumenti, dell’ambiente abitativo o dell’ambiente esterno o tale da interferire con le legittime fruizioni degli ambienti stessi”; e ancora, alla lettera b) del medesimo comma, identificano l’ambiente abitativo con “ogni ambiente interno ad un edificio destinato alla permanenza di persone o di comunità ed utilizzato per le diverse attività umane, fatta eccezione per gli ambienti destinati ad attività produttive per i quali resta ferma la disciplina di cui al D.Lgs. 15 agosto 1991, n. 277, salvo per quanto concerne l’immissione di rumore da sorgenti sonore esterne ai locali in cui si svolgono le attività produttive”.
In questa prospettiva, il bene giuridico tutelato dalla “legge-quadro [deve considerarsi] ben più ampio, in quanto il legislatore non si è limitato a prendere in esame esclusivamente la tutela dei singoli individui, perché la sua attenzione risulta focalizzata verso un ben più ampio contesto, valutando ogni possibile effetto negativo del rumore, inteso, appunto, come fenomeno “inquinante”, tale cioè, da avere effetti negativi sull’ambiente, alterandone l’equilibrio ed incidendo non soltanto sulle persone, sulla loro salute e sulle loro condizioni di vita, facendo la norma riferimento, come si è detto, anche agli ecosistemi, ai beni materiali ed ai monumenti”. Pertanto, secondo questo orientamento, una piena sovrapponibilità tra le due fattispecie dell’art. 659, comma 2 e dell’art. 10 citato, deve aversi soltanto nel caso in cui l’attività rumorosa si sia concretata nel mero superamento dei valori limite di emissione specificamente stabiliti in base ai criteri delineati dalla legge quadro, causato mediante l’esercizio o l’impiego delle sorgenti individuate dalla legge medesima. Ed in tali casi, sulla base dei principi enunciati dalle Sezioni Unite n. 1963/2011 del 28/10/2010, Di Lorenzo, Rv. 248722, il concorso tra disposizione penale incriminatrice e disposizione amministrativa sanzionatoria in riferimento allo stesso fatto, deve essere risolto a favore della disposizione speciale, costituita dalla fattispecie amministrativa. Viceversa, restano esclusi dall’ambito comune delle due ipotesi di illecito sia il superamento di soglie di rumore diversamente individuate o generate da altre fonti, sia l’insieme delle condotte che si estrinsecano nell’esercizio di attività rumorose svolte in violazione di altre disposizioni di legge o delle prescrizioni dell’autorità, trovando pacifica applicazione, in tali casi, l’art. 659, comma 2, cod. pen..

Quando, poi, le attività di cui sopra vengano svolte eccedendo dalle normali modalità di esercizio, rivelandosi idonee a turbare la pubblica quiete, sarà invece configurabile la violazione sanzionata dall’art. 659, comma 1, cod. pen. (per questo indirizzo si vedano: Sez. 3, n. 25424 del 5/06/2015, Pastore, non massimata; e, soprattutto, Sez. 3, n. 5735 del 21/01/2015, Giuffrè, Rv. 261885).

2.2. Tanto premesso, rileva il Collegio che la condotta descritta in imputazione rientra nella previsione del comma 1 dell’art. 659 cod. pen. in base a tutti e tre gli indirizzi giurisprudenziali prima richiamati.
Gli schiamazzi e i rumori prodotti dagli avventori di un esercizio pubblico, suscettibili di disturbare le occupazioni o il riposo delle persone, infatti, sono stati ricondotti non alle emissioni sonore prodotte, ordinariamente, da un qualunque esercizio nel quale si somministrino cibi e bevande e nel quale vengano tenuti servizi di intrattenimento musicale, quanto piuttosto a situazioni eccedenti le normali modalità di esercizio dell’attività intrinsecamente rumorosa. Pertanto, anche per il terzo degli indirizzi richiamati deve ritenersi configurabile, in una situazione come quella descritta, la fattispecie di cui al comma 1 dell’art. 659.
Sotto altro profilo, e segnatamente in relazione alla configurabilità della contravvenzione in esame nella forma omissiva, deve osservarsi che la giurisprudenza di legittimità ha riconosciuto, in capo al titolare di un esercizio pubblico, l’esistenza di una posizione di garanzia cui è correlato l’obbligo giuridico di impedire gli schiamazzi o comunque i rumori prodotti, in maniera eccessiva, dalla propria clientela, in questo modo configurando gli elementi strutturali propri delle fattispecie omissive improprie (cd. reati commissivi mediante omissione), caratterizzate dall’integrazione tra la struttura tipica del reato commissivo, cui sono riconducibili alcune tra le condotte previste dal comma 1 dell’art. 659, e la norma generale posta dall’art. 40, comma 2, cod. pen., secondo cui risponde di un evento dannoso o pericoloso colui il quale abbia l’obbligo giuridico di impedirlo.
Detto obbligo, il quale si sostanzia nel doveroso esercizio di un potere di controllo, è pacificamente configurabile a carico del titolare di una attività commerciale aperta al pubblico rispetto alle condotte poste in essere da parte dei suoi clienti che si trovino all’interno del locale, nei cui confronti egli è, dunque, tenuto ad adottare le misure più idonee ad impedire che determinati comportamenti da parte degli utenti possano sfociare in condotte contrastanti con le norme poste a tutela dell’ordine e della tranquillità pubblica. E tuttavia, si è ritenuto che un siffatto obbligo sussista anche per gli schiamazzi e i rumori prodotti dagli avventori all’esterno del locale, potendo il titolare ricorrere ai più vari accorgimenti, dagli avvisi alla clientela all’impiego di personale dedicato, dalla somministrazione delle bevande soltanto in recipienti non da asporto, in modo che esse vengano consumate all’interno del locale, fino al ricorso all’autorità di polizia o all’esercizio dello ius excludendi, quando essi siano comunque direttamente riferibili all’esercizio dell’attività, come nel caso in cui gli avventori permangano rumorosamente in sosta davanti al locale (v. Sez. F, n. 34283 del 28/07/2015, dep. 6/08/2015, Gallo, Rv. 264501; Sez. 1, n. 48122 del 3/12/2008, deo. 24/12/2008, Baruffaldi, Rv. 242808; Sez. 6, n. 7980 del 24/05/1993, dep. 24/08/1993, Papez, Rv. 194904); fermo restando che, fuori da tali casi, non è configurabile alcun potere di controllo e, correlativamente, nessun obbligo in capo al titolare (v. Sez. 3, n. 37196 del 5/09/2014, dep. 5/09/2014, Bonechi e altri, non massimata).

2.3. Nel caso di specie, il titolare dell’esercizio, consapevole dei suoi obblighi, aveva adottato alcune misure volte ad impedire che gli schiamazzi prodotti dai suoi clienti potessero recare disturbo ai residenti nella zona; accorgimenti consistiti nell’apposizione, all’entrata del locale, di un apposito cartellone.
Tali misure, però, sono state ritenute insufficienti in quanto, alla stregua di un giudizio controfattuale esperito dai giudici di primo e secondo grado, le stesse non hanno sortito alcun concreto effetto, non avendo esse determinato alcun apprezzabile risultato, neanche temporaneo, sui disturbi recati dalla clientela. Ciò vale anche per i rumori provocati dai veicoli degli avventori, che venivano parcheggiati in prossimità del locale e che, per effetto di improvvise accelerazioni e per lo stridio degli pneumatici, erano percepiti come una fonte di disturbo dai residenti.

Anche in questo caso, pur avendo il titolare dell’esercizio adibito una apposita area per il parcheggio dei veicoli da parte dei propri clienti, la Corte d’appello ha rilevato, con ragionamento tutt’altro che illogico, come dalla mancata adozione di misure atte ad indurre i clienti a servirsi di tale parcheggio, sito a poche centinaia di metri, per poi raggiungere a piedi il locale, sia derivata una moltiplicazione delle occasioni in cui le vetture degli avventori producevano dei fastidiosissimi rumori. Misure che, invero, sarebbero state di non difficile adozione e che il titolare dell’esercizio avrebbe, quindi, potuto agevolmente assumere una volta raggiunto dalle proteste dei residenti. Né può ritenersi illogica l’affermazione, censurata con il secondo motivo di ricorso, secondo cui sarebbe fondata su “mere congetture” l’affermazione secondo cui l’adozione di misure per regolamentare il parcheggio avrebbe impedito i rumori molesti prodotti dai motori delle automobili condotte dagli avventori del locale.

I principi dettati in materia di accertamento del nesso causale, nondimeno, postulano che l’incidenza causale della condotta asseritamente rilevante sul piano eziologico sia valutata in rapporto ad un evento (ovvero, come nella specie, ad una serie di eventi) storicamente determinati e non in termini di astratta idoneità a determinare modificazione del mondo esterno appartenenti ad una determinata tipologia di accadimenti. Ed è, dunque, evidente come l’adozione di accorgimenti diretti a circoscrivere il volume di traffico nella zona ove era ubicato il locale avrebbe concorso a ridurre, in maniera rilevante, la produzione di rumori avvertiti come fortemente molesti; sicché la mancata sperimentazione di misure rivolte a tal fine, da parte del titolare dell’esercizio, ha sicuramente concorso a determinare l’insieme di eventi rumorosi, storicamente determinati e descritti nell’imputazione, anche se assai difficilmente essa avrebbe impedito tout court ogni manifestazione disturbante.

Del tutto correttamente, dunque, alla stregua dei principi in precedenza richiamati il gestore dell’esercizio è stato chiamato a rispondere del reato di cui all’art. 659, comma 1, cod. pen.; ciò che conclusivamente comporta la declaratoria di infondatezza delle censure dedotte con i primi due motivi di ricorso.

3. Le considerazioni che precedono consentono di rilevare che la configurabilità dei reati in contestazione, riferibili a plurimi episodi di schiamazzi da parte della clientela dell’esercizio di cui Gasparotto era titolare, è stata affermata, innanzitutto, in relazione alle condotte omissive dell’odierno imputato. E tuttavia, i giudici di merito, alla stregua delle concrete emergenze dell’istruttoria dibattimentale, hanno configurato delle ulteriori condotte rilevanti ai sensi dell’art. 659 cod. pen., consistenti nelle emissioni sonore prodotte dall’eccessivo volume della musica suonata all’interno dell’esercizio.

Sul punto, al di là delle questioni relative alla riconducibilità di tali condotte nell’alveo del primo piuttosto che del secondo comma dell’art. 659 cod. pen., rispetto alle quali il ricorrente non ha sviluppato alcuna censura e che, quindi, possono essere qui tralasciate, si opina che le sentenze di merito avrebbero dato ingresso a fatti nuovi rispetto a quelli descritti in imputazione, sicché le stesse sarebbero viziate da nullità, ai sensi dell’art. 522 cod. proc. pen., per violazione del principio di corrispondenza tra l’accusa e la sentenza, sancito dall’art. 521 del codice di rito.

In proposito, giova tuttavia richiamare il consolidato orientamento della giurisprudenza di questa Corte, secondo cui le norme che disciplinano la correlazione tra l’imputazione contestata e la sentenza, avendo lo scopo di assicurare il contraddittorio sul contenuto dell’accusa e, quindi, il pieno esercizio del diritto di difesa dell’imputato, vanno interpretate con riferimento alle finalità alle quali sono dirette. Pertanto, esse non possono ritenersi violate da qualsiasi modificazione rispetto all’accusa originaria, ma soltanto nel caso in cui la modificazione dell’imputazione pregiudichi la possibilità di difesa dell’imputato. In altri termini, per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione, da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa (Sez. U, n. 36551 del 15/07/2010, Carelli, Rv. 248051).

Su tali basi, la violazione del principio in questione sussiste solo quando, nella ricostruzione del fatto posta a fondamento della decisione, la struttura dell’imputazione sia modificata quanto alla condotta, al nesso causale ed all’elemento soggettivo del reato, al punto che, per effetto delle divergenze introdotte, la difesa apprestata dall’imputato non abbia potuto utilmente sostenere la propria estraneità ai fatti criminosi globalmente considerati (Sez. 6, n. 34879 del 10/01/2007, Sartori e altri, Rv. 237415; Sez. 6, n. 12175 del 21/01/2005, Tarricone e altri, Rv. 231483; Sez. 1, n. 4655 del 10/12/2005, Addis, Rv. 230771; Sez. 6, n. 40538 del 6/02/2004, Lombardo, Rv. 229950). E dunque, ai fini della valutazione di corrispondenza tra pronuncia e contestazione di cui all’art. 521 cod. proc. pen. deve tenersi conto non solo del fatto descritto in imputazione, ma anche di tutte le ulteriori risultanze probatorie portate a conoscenza dell’imputato e che hanno formato oggetto di sostanziale contestazione, sicché questi abbia avuto modo di esercitare le sue difese sul materiale probatorio posto a fondamento della decisione (Sez. 6, n. 47527 del 13/11/2013, Di Guglielmi e altro, Rv. 257278; Sez. 6, n. 5890 del 22/01/2013, Lucera e altri, Rv. 254419; Sez. 3, n. 15655 del 27/02/2008, Fontanesi, Rv. 239866).

Nel corso del giudizio di primo grado, infatti, il disturbo recato ai residenti dalla somministrazione di musica a volume altissimo, ha costituito oggetto delle dichiarazioni di numerosissimi testimoni, che la difesa dell’imputato ha potuto liberamente contro-esaminare, così consentendosi un pieno esercizio del diritto al contraddittorio. Ne consegue, dunque, alla luce dei principi prima richiamati che, anche sotto tale profilo, le censure difensive devono ritenersi infondate, nessuna violazione del diritto di difesa essendo configurabile nel caso di specie, avendo l’imputato potuto pienamente confrontarsi, in chiave dialettica e critica, con le contestazioni mossegli nel corso del giudizio.

4. Sulla base delle considerazioni che precedono, il ricorso deve essere rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

PER QUESTI MOTIVI

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 18/01/2017.

Omesso versamento I.V.A., confermata la “linea dura”: forza maggiore solo nel caso di assoluta impossibilità ad adempiere l’obbligazione tributaria. Cass. Pen., Sez. III, 10.11.2016 n. 47250

La Corte di Cassazione, con la sentenza della Terza Sezione Penale del 10.11.2016, n. 47250 (udienza del 21.06.2016), conferma l’orientamento più restrittivo, secondo cui la mera difficoltà nell’adempimento dell’obbligazione tributaria non integra forza maggiore , la quale si concretizza esclusivamente in caso di assoluta impossibilità a porre in essere il comportamento omesso, affermando che:

  1. il margine di scelta esclude sempre la forza maggiore, in quanto non esclude la suitas della condotta;
  2. la mancanza di provvista necessaria all’adempimento dell’obbligazione tributaria penalmente rilevante non può essere addotta a sostegno della forza maggiore quando sia comunque il frutto di una scelta/politica imprenditoriale volta a fronteggiare una crisi di liquidità;
  3. non si può invocare la forza maggiore quando l’inadempimento penalmente sanzionato sia stato con-causato dal mancato pagamento delle singole scadenze mensili e dunque da una situazione di illegittimità;
  4. l’inadempimento tributario penalmente rilevante può essere attribuito a forza maggiore solo quando derivi da fatti non imputabili all’imprenditore che non ha potuto tempestivamente porvi rimedio per cause indipendenti dalla sua volontà e che sfuggono al suo dominio finalistico.

Di seguito il testo delle motivazioni.

* * *

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSI Elisabetta – Presidente –

Dott. DE MASI Oronzo – Consigliere –

Dott. MANZON Enrico – Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –

Dott. DI STASI Antonella – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

D.N., nato a (omissis) il xx/xx/19xx;

avverso la sentenza del 14/05/2015 della Corte di Appello di Campobasso;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott.ssa DI STASI Antonella;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.ssa FILIPPI Paola che ha concluso chiedendo la declaratoria di inammissibilità del ricorso.

Svolgimento del processo

1. Con sentenza del 14.5.2015, la Corte di Appello di Campobasso confermava la sentenza del 17.10.2014 del Tribunale di Campobasso che aveva dichiarato D.N. responsabile dei reati di cui all’art. 81 cpv. c.p. e D.Lgs. n. 74 del 2000, 10-ter – perchè nella qualità di titolare e legale rappresentante della omonima ditta ometteva di versare, entro il termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo di imposta successivo, l’imposta sul valore aggiunto relativamente ai periodi di imposta (omissis), (omissis) e (omissis) – e lo aveva condannato alla pena di anni uno e mesi due di reclusione con le conseguenti pene accessorie.

2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione D.N., per il tramite del difensore di fiducia, articolando un unico complesso motivo di seguito enunciato nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1.

Il ricorrente deduce che, pur non disconoscendo di aver posto in essere la condotta omissiva contestata, ciò era avvenuto non per mancanza di volontà di adempiere ai propri doveri con il fisco ma perchè impossibilitato a farlo per causa di forza maggiore dovuta non solo alle condizioni di precarietà in cui era costretto a vivere ma anche e soprattutto perchè non aveva mai incassato le esorbitanti somme sulle quale versare l’IVA per essere un semplice “prestanome”. Argomenta, quindi, che risulta evidente l’insussistenza dell’elemento psicologico del reato contestato.

Aggiunge che la crisi di liquidità configura una sorta di forza maggiore che interrompe il nesso psichico e che, nella specie, si è trattato proprio di una “evasione di sopravvivenza”.

Deduce, poi, che l’affermazione di responsabilità è stata fondata nei due gradi di giudizio su una istruttoria monca, sulle sole dichiarazioni dei testi di accusa ed in assenza di prove documentali.

Deduce, infine, la violazione del diritto di difesa, in quanto la Corte di appello disattendeva una istanza di rinvio per legittimo impedimento corredata e giustificata da apposita documentazione.

Chiede, pertanto, assoluzione perchè il fatto non sussiste, per carenza dell’elemento psicologico o con altra formula ampia.

Motivi della decisione

1. Il ricorso va dichiarato inammissibile.

2. Il primo motivo è manifestamente infondato.

Con la sentenza n. 37424/2013 le Sezioni Unite hanno ribadito che il reato in esame è punibile a titolo di dolo generico.

Per la commissione del reato, basta, dunque, la coscienza e volontà di non versare all’Erario le ritenute effettuate nel periodo considerato e la prova del dolo è insita, in genere, nella presentazione della dichiarazione annuale, dalla quale emerge quanto è dovuto a titolo di imposta, e che deve, quindi, essere “saldato o almeno contenuto” sotto la soglia di punibilità nel termine lungo previsto. Con l’effetto che se il debito verso il fisco relativo ai versamenti IVA è collegato al compimento delle singole operazioni imponibili, ogni qualvolta il soggetto d’imposta effettua tali operazioni riscuote già (dall’acquirente del bene o del servizio) l’IVA dovuta e deve, quindi, tenerla accantonata per l’Erario, organizzando le risorse disponibili in modo da poter adempiere all’obbligazione tributaria. Il D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10-ter estende evidentemente questa esigenza di organizzazione su scala annuale.

Non può, pertanto, essere invocata, per escludere la colpevolezza, la crisi di liquidità del soggetto attivo al momento della scadenza del termine, ove non si dimostri che la stessa non dipenda dalla scelta (protrattasi, in sede di prima applicazione della norma, nella seconda metà del (omissis)) di non far debitamente fronte alla esigenza predetta organizzativa (per l’esclusione del rilievo scriminante di impreviste difficoltà economiche in sè considerate v., in riferimento alla parallela norma dell’art. 10-bis, Sez. 3, n. 10120 del 01/12/2010, dep. 2011, Provenzale).

Questa Corte ha ulteriormente precisato che è necessario che siano assolti, sul punto, precisi oneri di allegazione che devono investire non solo l’aspetto della non imputabilità al contribuente della crisi economica che improvvisamente avrebbe investito l’azienda, ma anche la circostanza che detta crisi non potesse essere adeguatamente fronteggiata tramite il ricorso ad idonee misure da valutarsi in concreto.

Occorre cioè la prova che non sia stato altrimenti possibile per il contribuente reperire le risorse economiche e finanziarie necessarie a consentirgli il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, dirette a consentirgli di recuperare, in presenza di un’improvvisa crisi di liquidità, quelle somme necessarie ad assolvere il debito erariale, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà e ad egli non imputabili (Sez. 3, 9 ottobre 2013, n. 5905/2014; Sez. 3, n. 15416 del 08/01/2014, Tonti Sauro; Sez. 3, n. 5467 del 05/12/2013, Mercutello, Rv. 258055, Sez.3, n. 43599 del 09/09/2015, dep. 29/10/2015, Rv. 265262).

Poichè la forza maggiore postula la individuazione di un fatto imponderabile, imprevisto ed imprevedibile, che esula del tutto dalla condotta dell’agente, tanto da rendere ineluttabile il verificarsi dell’evento, non potendo ricollegarsi in alcun modo ad un’azione od omissione cosciente e volontaria dell’agente, questa Suprema Corte ha sempre escluso, quando la specifica questione è stata posta, che le difficoltà economiche in cui versa il soggetto agente possano integrare la forza maggiore penalmente rilevante. (Sez. 3, n. 4529 del 04/12/2007, Cairone, Rv. 238986; Sez. 1, n. 18402 del 05/04/2013, Giro, Rv. 255880; Sez. 3, n. 24410 del 05/04/2011, Bolognini, Rv. 250805; Sez. 3, n. 9041 del 18/09/1997, Chiappa, Rv. 209232; Sez. 3, n. 643 del 22/10/1984, Bottura, Rv. 167495; Sez. 3, n. 7779 del 07/05/1984, Anderi, Rv. 165822).

Costituisce corollario di queste affermazioni il fatto che nei reati omissivi integra la causa di forza maggiore l’assoluta impossibilità, non la semplice difficoltà di porre in essere il comportamento omesso (Sez. 6, n. 10116 del 23/03/1990, Iannone, Rv. 184856).

Ne consegue che: a) il margine di scelta esclude sempre la forza maggiore perchè non esclude la suitas della condotta; b) la mancanza di provvista necessaria all’adempimento dell’obbligazione tributaria penalmente rilevante non può pertanto essere addotta a sostegno della forza maggiore quando sia comunque il frutto di una scelta/politica imprenditoriale volta a fronteggiare una crisi di liquidità; c) non si può invocare la forza maggiore quando l’inadempimento penalmente sanzionato sia stato con-causato dal mancato pagamento delle singole scadenze mensili e dunque da una situazione di illegittimità; d) l’inadempimento tributario penalmente rilevante può essere attribuito a forza maggiore solo quando derivi da fatti non imputabili all’imprenditore che non ha potuto tempestivamente porvi rimedio per cause indipendenti dalla sua volontà e che sfuggono al suo dominio finalistico (Sez. 3, n. 8352 del 24/06/2014, dep. 25/02/2015, Rv. 263128).

Nel caso in esame, la deduzione riguardante la crisi economica è generica e in fatto e non reca, in particolare, indicazioni specifiche nè concrete atte a ravvisare una reale impossibilità incolpevole all’adempimento ovvero a ricondurre la causa esclusiva dell’inadempimento a condotte tenute prima del secondo semestre del (omissis).

3. Il secondo motivo è inammissibile; ne va, infatti, rilevata la aspecificità ai sensi degli artt. 591 e 581 c.p.p..

Il ricorrente si limita a censurare genericamente la sentenza resa dal giudice di secondo grado, allegando che la Corte territoriale non avrebbe valutato il compendio probatorio, le cui risultanze escluderebbero la sua responsabilità, e senza indicare alcun elemento di concretezza al riguardo.

Il vizio risulta diretto ad indurre la rivalutazione del compendio probatorio, senza l’indicazione di specifiche questioni in astratto idonee ad incidere sulla capacità dimostrativa delle prove raccolte.

Il vizio di motivazione per superare il vaglio di ammissibilità non deve essere diretto a censurare genericamente la valutazione di colpevolezza, ma deve invece essere idoneo ad individuare un preciso difetto del percorso logico argomentativo offerto dalla Corte di merito, sia esso identificabile come illogicità manifesta della motivazione, sia esso inquadrabile come carenza od omissione argomentativa; quest’ultima declinabile sia nella mancata presa in carico degli argomenti difensivi, sia nella carente analisi delle prove a sostegno delle componenti oggettive e soggettive del reato contestato.

Il perimetro della giurisdizione di legittimità è, infatti, limitato alla rilevazione delle illogicità manifeste e delle carenze motivazionali, ovvero di vizi specifici del percorso argomentativo, che non possono dilatare l’area di competenza della Cassazione alla rivalutazione dell’interno compendio indiziario. Le discrasie logiche e le carenze motivazionali eventualmente rilevate per essere rilevanti devono, inoltre, avere la capacità di essere decisive, ovvero essere idonee ad incidere il compendio indiziario, incrinandone la capacità dimostrativa.

4. Il terzo motivo è inammissibile.

Il ricorrente lamenta il mancato accoglimento di istanza di rinvio per legittimo impedimento e la violazione del diritto di difesa per essere stata la sentenza emessa in assenza dell’imputato e del difensore, senza nulla specificare in ordine al contenuto e fondamento della istanza e della correlata documentazione nonchè ai termini del diniego della stessa.

Esso, quindi, si caratterizza per assoluta genericità, integra la violazione dell’art. 581 c.p.p., lett. c), che nel dettare, in generale, quindi anche per il ricorso per cassazione, le regole cui bisogna attenersi nel proporre l’impugnazione, stabilisce che nel relativo atto scritto debbano essere enunciati, tra gli altri, “I motivi, con l’indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta”; violazione che, ai sensi dell’art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c), determina, per l’appunto, l’inammissibilità dell’impugnazione stessa (cfr. Sez. 6, 30.10.2008, n. 47414, rv. 242129; Sez. 6, 21.12.2000, n. 8596, rv. 219087).

Inoltre, la deduzione contrasta con il contenuto della sentenza impugnata, nella quale si dà atto, invece, della presenza all’udienza di discussione del gravame del difensore dell’imputato che rassegnava le conclusioni chiedendo l’accoglimento dell’appello.

5. Consegue, pertanto, la declaratoria di inammissibilità del ricorso.

6. Essendo il ricorso inammissibile e, a norma dell’art. 616 c.p.p., non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13.6.2000), alla condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura ritenuta equa indicata in dispositivo.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.500,00 in favore della Cassa delle Ammende.

Così deciso in Roma, il 21 giugno 2016.

Depositato in Cancelleria il 10 novembre 2016.