Improcedibile la opposizione a decreto ingiuntivo, se la mediazione è stata promossa innanzi ad un organismo di mediazione non competente. Trib. Reggio Emilia sent. 27.03.2017 n. 329 dott.ssa Boiardi.

Il Tribunale di Reggio Emilia si pronuncia sul promovimento del procedimento di mediazione avanti un Organismo territorialmente non competente; in particolare, vertendosi in tema di opposizione a decreto ingiuntivo, l’opponente, dopo la pronuncia del provvedimento ex art. 649 cod. proc. civ., aveva promosso il procedimento di mediazione avanti un Organismo di mediazione non avente sede presso il circondario del Tribunale della causa e non aveva partecipato all’altro procedimento di mediazione, promosso dalla parte opposta, e radicato presso un organismo territorialmente competente. Il Tribunale di Reggio Emilia ha considerato la mancata partecipazione al secondo procedimento unitamente all’instaurazione del procedimento avanti un Organismo incompetente quale mancata comparizione al procedimento di mediazione, dichiarando l’improcedibilità dell’opposizione, con conseguente definitività del decreto opposto.

Trib. Reggio Emilia, sent. 27.03.2017, dott.ssa Boiardi.

* * *

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Tribunale Ordinario di Reggio nell’Emilia
SEZIONE SECONDA CIVILE

Il Tribunale, nella persona del Giudice dott. Simona Boiardi ha pronunciato ex art. 281 sexies c.p.c. la

seguente

SENTENZA

nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. XXXX/20XX promossa da:

XXXX SRL (C.F. ), con il patrocinio dell’avv. YYY e dell’avv. ZZZ (XXXXXXXXXXXXX) VIA XXXXXXXXXXXX elettivamente domiciliato in VIA XXXXXXXXXXX presso il difensore avv. YYY

ATTRICE OPPONENTE

contro

YYYY spa (C.F. ), con il patrocinio dell’avv. XXX elettivamente domiciliata in VIA XXXXXXXXXXXXXXXX presso il difensore avv. XXX

CONVENUTA OPPOSTA

Oggetto: Contratti Bancari
Conclusioni come in atti
COINCISA ESPOSIZIONE DELLE RAGIONI IN FATTO E IN DIRITTO DELLA DECISIONE

Con atto di citazione in opposizione al decreto ingiuntivo parte opponente conveniva in giudizio YYYY spa chiedendo la revoca del decreto ingiuntivo n. XXXX/2015 Rg emesso dal Tribunale di Reggio Emilia con cui veniva ingiunto il pagamento in favore della banca opposta della somma capitale di euro 51.415,58 oltre agli interessi legali e spese di lite.
Si costituiva YYYY spa chiedendo la conferma del decreto ingiuntivo opposto.

All’udienza del 14 luglio 2016 veniva rigettata l’istanza di sospensione della p.e. proposta da parte opponente e il giudice assegnava alle parti termine di giorni 15 per la presentazione della domanda di mediazione.
Alla successiva udienza, del 26-1-2017 parte opposta ha documentato di avere attivato tempestivamente il procedimento di mediazione in Reggio Emilia (non partecipando a quello attivato da parte opposta presso l’organismo di mediazione di Taranto ritenuto incompetente) ma che alla mediazione presso l’organismo di mediazione di Reggio Emilia parte opponente non aveva partecipato. Il giudice rilevava d’ufficio la mancata partecipazione alla mediazione ai sensi dell’art. 5 D.Lgs. n. 28 del 2010 , e fissava udienza ex art.281 sexies c.p.c.

Si osserva che il novellato art. 4, comma I, del D.Lgs 28/2010 richiamato dal novellato art. 5 del D.Lgs 28/2010 prevede che la domanda di mediazione sia presentata presso un Organismo che si trovi nel circondario del Giudice territorialmente competente per la controversia.
L’Organismo di Mediazione competente è, quindi, quello che ha sede nel luogo del Giudice procedente (non era, peraltro, nel giudizio de quo in discussione la competenza del Tribunale di Reggio Emilia). Nel caso di specie, la domanda di mediazione è stata presentata da parte opponente in data 22.07.2016 innanzi all’Organismo di mediazione XXXXXXXX di Taranto, incompetente territorialmente poiché competente a decidere la causa civile di opposizione a decreto in oggetto è il Tribunale di Reggio Emilia.

Parte opposta in data 27.07.2016 ha attivato la procedura di mediazione presso l’Organismo di Mediazione ZZZZZ di Reggio Emilia ma parte opposta non vi ha partecipato come emerge dal verbale del 14-9-2016 pur a fronte di regolare convocazione.

L’opposizione è improcedibile.

E’ documentalmente provato (v. verbale di mancata comparizione del 14-9-2016) che, a seguito dell’invio d’ufficio in mediazione disposto ai sensi dell’art. 5 citato, e alla attivazione del relativo procedimento ad iniziativa di parte opposta parte opponente non si è presentata all’incontro rendendo di fatto impossibile esperire la mediazione.

L’art.5 D.Lgs. n. 28 del 2010 prevede che : “Chi intende esercitare in giudizio un’azione relativa a una controversia in materia di condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante da responsabilità medica e sanitaria e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari, è tenuto, assistito dall’avvocato, preliminarmente a esperire il procedimento di mediazione ai sensi del presente decreto ovvero i procedimenti previsti dal decreto legislativo 8 ottobre 2007, n. 179, e dai rispettivi regolamenti di attuazione ovvero il procedimento istituito in attuazione dell’articolo 128-bis del testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, e successive modificazioni, per le materie ivi regolate. L’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale

E’ pacifico che in tema di procedimento monitorio, se le parti non hanno esperito la mediazione disposta dal magistrato, il giudice deve dichiarare l’improcedibilità dell’opposizione a decreto ingiuntivo; e tale improcedibilità travolge non la domanda monitoria consacrata nel provvedimento ingiuntivo, ma l’opposizione a essa; l’inattività delle parti, infatti, dà luogo all’estinzione del processo che nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo produce gli stessi effetti dell’estinzione del giudizio di impugnazione, facendo acquisire in tal modo al decreto ingiuntivo opposto l’incontrovertibilità tipica del giudicato (cfr. Tribunale Firenze, sez. III, 30/10/2014); sul punto la Suprema Corte di Cassazione (cfr. Cassazione Civile 3 dicembre 2015 n. 24629) ha stabilito che “la norma (art. 5 D.Lvo 28/2010) è stata costruita in funzione deflattiva e, pertanto, va interpretata alla luce del principio costituzionale del ragionevole processo e, dunque, dell’efficienza processuale. In questa prospettiva la norma, attraverso il meccanismo della mediazione obbligatoria, mira – per così dire – a rendere il processo la extrema ratio: cioè l’ultima possibilità dopo che le altre possibilità sono risultate precluse.

Quindi l’onere di esperire il tentativo di mediazione deve allocarsi presso la parte che ha interesse al processo e ha il potere di iniziare il processo.
Nel procedimento per decreto ingiuntivo cui segue l’opposizione, la difficoltà di individuare il portatore dell’onere deriva dal fatto che si verifica una inversione logica tra rapporto sostanziale e rapporto processuale, nel senso che il creditore del rapporto sostanziale diventa l’opposto nel giudizio di opposizione.

Questo può portare ad un errato automatismo logico per cui si individua nel titolare del rapporto sostanziale (che normalmente è l’attore nel rapporto processuale) la parte sulla quale grava l’onere. Ma in realtà – avendo come guida il criterio ermeneutico dell’interesse e del potere di introdurre il giudizio di cognizione – la soluzione deve essere quella opposta. Invero, attraverso il decreto ingiuntivo, l’attore ha scelto la linea deflattiva coerente con la logica dell’efficienza processuale e della ragionevole durata del processo.

È l’opponente che ha il potere e l’interesse ad introdurre il giudizio di merito, cioè la soluzione più dispendiosa, osteggiata dal legislatore.
È dunque sull’opponente che deve gravare l’onere della mediazione obbligatoria perché è l’opponente che intende precludere la via breve per percorrere la via lunga.

La diversa soluzione sarebbe palesemente irrazionale perché premierebbe la passività dell’opponente e accrescerebbe gli oneri della parte creditrice.

Del resto, non si vede a quale logica di efficienza risponda una interpretazione che accolli al creditore del decreto ingiuntivo l’onere di effettuare il tentativo di mediazione quando ancora non si sa se ci sarà opposizione allo stesso decreto ingiuntivo. È, dunque, l’opponente ad avere interesse ad avviare il procedimento di mediazione pena il consolidamento degli effetti del decreto ingiuntivo ex art. 653 c.p.c.. Soltanto quando l’opposizione sarà dichiarata procedibile riprenderanno le normali posizioni delle parti: opponente convenuto sostanziale, opposto – attore sostanziale.

Ma nella fase precedente sarà il solo opponente, quale unico interessato, ad avere l’onere di introdurre il procedimento di mediazione; diversamente, l’opposizione sarà improcedibile”.

Ciò premesso occorre valutare se, in concreto, possa ritenersi assolta la condizione di procedibilità dell’opposizione se, attivato il procedimento di mediazione su iniziativa di parte opposta, parte opponente non vi abbia partecipato.

L’art. 5 comma II bis del dlgs n.28/2010 statuisce che: “la condizione di procedibilità della domanda giudiziale si considera avverata se il primo incontro innanzi al mediatore si conclude senza accordo”. E’ evidente che può esservi “incontro” solo se sono presenti tutte le parti ed è sicuramente onere della parte che ha interesse ad assolvere la condizione di procedibilità di partecipare agli incontri avanti al mediatore.

Non vi è dubbio, peraltro, che (così come evidenziato dalla pronuncia del Tribunale di Firenze del 21 aprile 2015) “esperire una procedura non equivale ad avviarla, bensì a compiere tutto quanto necessario perché la stessa raggiunga il suo sito fisiologico, che nel caso della mediazione coincide, quantomeno, con il primo incontro avanti al mediatore e, se anche l’altra parte compare, con l’avvio dell’effettiva attività mediatoria”.

Questo giudice condivide, peraltro, le argomentazioni di quella giurisprudenza di merito (Trib. Firenze 24-3-2016 n.1178 e Trib. Firenze 19-3-2014) che escludono che il disposto di cui all’art. 8, comma IV bis del D. Lgs. citato, secondo cui “dalla mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento di mediazione il giudice può desumere argomenti di prova nel successivo giudizio ai sensi dell’art. 116, II co., c.p.c.. Il giudice condanna la parte costituita che, nei casi previsti dall’art. 5, non ha partecipato al procedimento senza giustificato motivo, al versamento all’entrata del bilancio dello Stato di una somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto per il giudizio ” sia indice della volontà legislativa di comminare sanzioni diverse dalla improcedibilità alla parte che non compaia.

E’ vero che, ad una prima lettura, tale disposizione sembrerebbe escludere che alla mancata partecipazione di una parte al procedimento possa seguire la sanzione della improcedibilità.
Le conseguenze sarebbero, infatti, solo quelle previste da tale norma, con riflessi quindi sfavorevoli sotto il profilo probatorio (ex art. 116 c.p.c.) e con applicazione della sanzione pecuniaria (in questo senso, recentemente, Trib. Taranto ord. 16.4.2015).

La giurisprudenza di merito (Trib. Firenze 24-3-2016 n.1178) ha evidenziato come tale disposizione, alla luce della ratio della sanzione della improcedibilità e della efficacia deflattiva dell’istituto, va invece letta nel senso che essa sia applicabile esclusivamente nei confronti della parte che non è onerata ex lege, sotto comminatoria di improcedibilità, all’esperimento della mediazione.

Tale giurisprudenza ha sottolineato che: “La logica dell’istituto è, chiaramente, nel senso di onerare chi intende far valere in giudizio un diritto, ovvero proporre appello, non solo di promuovere la mediazione, ma anche di partecipare al relativo procedimento al fine di rendere possibile un accordo tra le parti in quella sede.

In caso di mancata partecipazione alla mediazione della parte che ha l’onere di esperire il procedimento mediatorio non sarebbe ragionevole ritenere applicabili le sole sanzioni di cui all’art. 8 citato.
Si renderebbe cioè possibile alla parte onerata di assolvere alla condizione, assicurando la procedibilità della propria domanda, semplicemente attivando il procedimento e non mediante “l’esperimento” dello stesso”.

In conclusione va sanzionato con l’improcedibilità il comportamento della parte onerata ex lege che non compaia avanti al mediatore.
Per effetto di tale pronuncia di improcedibilità, resta assorbita ogni questione di merito.
Tenuto conto della novità della questione e del rilievo d’ufficio si compensano tra le parti le spese di lite

PQM

Il Tribunale Civile di Reggio Emilia in composizione monocratica nella persona del giudice dott.ssa Simona Boiardi
visto l’art. 281-sexies c.p.c.,
definitivamente pronunciando nella causa civile iscritta al n. XXXX/2016 ogni altra e diversa istanza ed eccezione disattesa, così provvede:

1) DICHIARA improcedibile l’opposizione e per l’effetto conferma il decreto ingiuntivo opposto n. XXXX/2015;

2) Compensa interamente tra le parti le spese di lite

Reggio Emilia il 27-3-2017

Il Giudice

(dott.ssa Simona Boiardi)

 

Interruzione dei servizi informatici del settore civile per l’installazione di modifiche evolutive, migliorative e correttive. Comunicazione del 15.06.2017

Il Ministero della Giustizia comunica che, per consentire l’aggiornamento di talune funzionalità dei sistemi, a partire dalle ore 12.00 del 16.06.2017, saranno resi indisponibili tutti i servizi informatici del settore civile ed, in particolare:

  • la consultazione e l’implementazione dei registri di cancelleria;
  • l’aggiornamento (anche da fuori ufficio) della consolle del magistrato;
  • il deposito telematico di atti e provvedimenti da parte dei magistrati;
  • tutte le funzionalità del portale dei servizi telematici;
  • tutte le funzioni di consultazione da parte dei soggetti abilitati esterni;
  • i pagamenti telematici.

Rimarranno attivi i servizi di posta elettronica certificata e sarà, quindi, possibile il deposito telematico da parte degli avvocati, dei professionisti e degli altri soggetti abilitati esterni anche se i messaggi relativi agli esiti dei controlli automatici potrebbero pervenire solo al riavvio definitivo di tutti i sistemi.

Attenzione!!!
Il riavvio dei sistemi è previsto a partire dalle ore 24.00 del giorno 17.06.2017 e sino, al massimo, alle ore 8.00 del giorno 19.06.2017.

Al seguente link, il comunicato ufficiale del Ministero della Giustizia:

http://pst.giustizia.it/PST/it/pst_3_1.wp?previousPage=pst_3&contentId=NEW3904

Legge n. 81/2017 – Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato (modifiche anche al codice di procedura civile in vigore dal 14.06.2017)

Esteso anche ai lavoratori autonomi il diritto ad agire in via monitoria sulla base degli estratti autentici delle scritture contabili prescritte dalle leggi tributarie (modifica all’art 634 cod. proc. civ.).

* * *

Legge 22 maggio 2017, n. 181 (in G.U. n. 135 del 13.06.2017)

La Camera dei deputati ed il Senato della Repubblica hanno approvato;

IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
Promulga

la seguente legge:

[omissis]

Art. 15
Modifiche al codice di procedura civile

1. Al codice di procedura civile sono apportate le seguenti modificazioni:

a) all’articolo 409, numero 3), dopo le parole: «anche se non a carattere subordinato» sono aggiunte le seguenti: «. La collaborazione si intende coordinata quando, nel rispetto delle modalità di coordinamento stabilite di comune accordo dalle parti, il collaboratore organizza autonomamente l’attività lavorativa»;

b) all’articolo 634, secondo comma, dopo le parole: «che esercitano un’attività commerciale» sono inserite le seguenti: «e da lavoratori autonomi».

[omissis]

Per i clienti rumorosi, risponde (penalmente) l’esercente. Cass. Pen., Sez. III, 08.05.2017 n. 22142

La Corte di Cassazione, con la sentenza della Terza Sezione Penale dell’08.05.2017, n. 22142 (udienza del 18.01.2017), dopo una completa ricognizione della normativa e della giurisprudenza sull’art. 659 cod. pen. e sulla normativa speciale sul c.d. “inquinamento acustico”, afferma che l’esercente un pubblico esercizio ha l’obbligo di impedire gli schiamazzi o i rumori (eccessivi) prodotti dai clienti, anche all’esterno del locale, potendo ricorrere ai più vari accorgimenti: dagli avvisi alla clientela all’impiego di personale dedicato, dalla somministrazione delle bevande soltanto in recipienti non da asporto, così che le stesse siano consumate all’interno del locale, fino al ricorso all’autorità di polizia o all’esercizio dello ius excludendi.

Di seguito il testo delle motivazioni.

* * *

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE 

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da
G.I., nato a X il XX/XX/19XX,

avverso la sentenza in data 26/02/2016 della Corte d’appello di Trieste
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Carlo Renoldi;
udito il Pubblico Ministero, in persona del sostituto Procuratore generale dott.ssa Marilia di Nardo, che ha concluso chiedendo la pronuncia di una declaratoria di inammissibilità.

RITENUTO IN FATTO

1. I.G. era stato citato a giudizio dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Udine per avere “in diverse circostanze di tempo, e nella sua qualità di gestore del pubblico esercizio M.D.S. composto di due aree, l’una all’insegna M. e l’altra all’insegna M.D.S., sito in Y Via X, non impedendo gli schiamazzi degli avventori che stazionavano all’esterno del predetto esercizio e che si protraevano sino a tarda notte”, creato disturbo al riposo dei residenti nelle vie limitrofe, in particolare ai residenti di Via X, Via Y e Piazza Z”; fatti commessi in Y a partire dal 30/10/2012 ed in permanenza.

1.1. All’esito del giudizio di primo grado G. era stato condannato, con sentenza del Tribunale di Udine, Sezione distaccata di Palmanova in data 31/10/2012, alla pena di un mese e dieci giorni di arresto in quanto riconosciuto colpevole dei reati, unificati dal vincolo della continuazione, di cui agli artt. 81, 40 comma 2 e 659 cod. pen.. E con successiva sentenza in data 26/02/2016 la Corte d’appello di Trieste aveva confermato la pronuncia di primo grado.

2. Avverso la sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione lo stesso G., a mezzo del difensore fiduciario, deducendo tre distinti motivi di censura.

2.1. Con il primo di essi, il ricorrente denuncia, ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e) cod, proc. pen., la erronea applicazione della legge penale in relazione agli artt. 40, comma 1 e 659 cod. pen., per avere la sentenza impugnata erroneamente ascritto all’imputato, gestore di un esercizio pubblico, gli schiamazzi prodotti dagli avventori del medesimo locale all’uscita della discoteca e i rumori derivanti dalle autovetture dei clienti. In particolare, la corte triestina avrebbe per un verso affermato, erroneamente, l’esistenza di un potere di controllo del titolare dell’esercizio anche sulle condotte compiute, all’esterno del locale, dalla propria clientela; e, per altro verso, avrebbe ritenuto insufficienti le misure organizzative adottate da Gasparotto, in quanto inidonee ad impedire l’evento, costituito dal disturbo della tranquillità pubblica.

2.2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce, ex art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen., la manifesta illogicità della motivazione in quanto la decisione sarebbe fondata, non su ragionevoli massime di esperienza, quanto su “mere congetture”, consistenti nell’affermazione, non verificata, che ove G. avesse predisposto un’adeguata segnaletica ovvero un servizio di vigilanza, egli avrebbe impedito il parcheggio delle vetture nelle vie del centro, eliminando i rumori molesti prodotti dai motori delle automobili.

2.3. Con il terzo motivo, il ricorrente deduce, ex art. 606, comma 1, lett. b) e c) cod. proc. pen., l’erronea applicazione della legge penale e l’inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità in relazione al principio di corrispondenza fra l’imputazione e la sentenza, avendo il provvedimento impugnato affermato la responsabilità dell’imputato anche in relazione all’alto volume della musica suonata nell’esercizio pubblico di cui era titolare, ovvero sulla base di un elemento fattuale differente da quanto contestatogli nel capo di imputazione, idoneo ad integrare una differente fattispecie incriminatrice, essendo l’art. 659 cod. pen. una “disposizione a più norme”. Pertanto, ricorrendo una violazione dell’art. 518 cod. proc. pen., la sentenza sarebbe nulla per violazione dell’art. 522 del codice di rito, sia pure soltanto nella parte relativa al fatto nuovo.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è infondato.

2. Giova, preliminarmente, porre in luce come l’art. 659, inserito nel codice penale tra le contravvenzioni concernenti l’ordine e la tranquillità pubblica, preveda due distinte ipotesi di reato: quella di cui al primo comma, che punisce il comportamento di colui il quale “mediante schiamazzi o rumori, ovvero abusando di strumenti sonori o di segnalazioni acustiche ovvero suscitando o non impedendo strepiti di animali, disturba le occupazioni o il riposo delle persone, ovvero gli spettacoli, i ritrovi o i trattenimenti pubblici”; nonché quella di cui al secondo comma, che invece punisce il fatto di “chi esercita una professione o un mestiere rumoroso contro le disposizioni della legge o le prescrizioni dell’Autorità”. Dunque, mentre la prima fattispecie, contemplata dal comma 1, punisce il disturbo della pubblica quiete da chiunque cagionato, peraltro con modalità espressamente e tassativamente determinate, la seconda, disciplinata dal comma 2, punisce le attività rumorose, industriali o professionali, esercitate in difformità dalle prescrizioni di legge o dalle disposizioni dell’autorità (Sez. 3, n. 23529 del 13/05/2014, Ioniez, Rv. 259194).

Controverso è il rapporto tra le due ipotesi di reato, così come quello tra le stesse e la disciplina dettata dall’art. 10, comma 2, della legge 26 ottobre 1995, n. 447 (cd. legge quadro sull’inquinamento acustico), la quale prevede un’ipotesi di illecito amministrativo nel caso in cui “nell’esercizio o nell’impiego di una sorgente fissa o mobile di emissioni sonore” si superino “i valori limite di emissione o di immissione” fissati in conformità al disposto dell’art. 3, comma 1, lettera a) della stessa legge.

2.1. Secondo un primo indirizzo, “il mancato rispetto dei limiti di emissione del rumore stabiliti dal D.P.C.M. 1 marzo 1991 può integrare la fattispecie di reato prevista dall’art. 659, comma secondo, cod. pen., allorquando l’inquinamento acustico è concretamente idoneo a recare disturbo al riposo e alle occupazioni di una pluralità indeterminata di persone, non essendo in tal caso applicabile il principio di specialità di cui all’art. 9 della legge n. 689 del 1981 in relazione all’illecito amministrativo previsto dall’art. 10, comma secondo, della legge n. 447 del 1995” (Sez. 3, n. 15919 in data 8/04/2015, CO.NA.VAR. S.r.l., Rv. 266627; Sez. 3 n. 37184 del 3/07/2014, Torricella, non massimata; Sez. 1, n. 4466 del 5/12/2013, Giovanelli e altro, Rv. 259156; Sez. 1, n. 33413 del 7/06/2012, Girolimetti, Rv. 253483; Sez. 1, n. 1561 del 5/12/2006, Rey ed altro, Rv. 235883; Sez. 1, n. 25103 del 16/04/2004, Amato, Rv. 228244, relativa ad un caso di superamento dei valori-limite di rumorosità prodotta nell’attività di esercizio di una discoteca). Ciò in quanto le due disposizioni sarebbero poste a protezione di beni giuridici diversi: mentre le fattispecie previste dall’art. 659 cod. pen. tutelerebbero la tranquillità pubblica, evitando che le occupazioni e il riposo delle persone possano venire disturbate con schiamazzi o rumori o con altre attività idonee ad interferire nel normale svolgimento della vita privata di un numero indeterminato di persone, con conseguente messa in pericolo del bene della pubblica tranquillità, viceversa, la fattispecie contemplata dall’art. 10, comma 2, della legge n. 447 del 1995, tutelerebbe genericamente la salubrità ambientale e la salute umana, limitandosi a stabilire i limiti di rumorosità delle sorgenti sonore, oltre i quali debba ritenersi sussistente l’inquinamento acustico, sanzionato in via amministrativa in considerazione dei danni che il rumore può produrre sia sul fisico che sulla psiche delle persone.
Secondo un opposto orientamento, il superamento dei limiti di accettabilità di emissioni sonore derivanti dall’esercizio di mestieri rumorosi configurerebbe l’illecito amministrativo di cui all’art. 10, comma 2, legge n. 447 del 1995 (cfr. Sez. 1, n. 530 del 3/12/2004, P.M. in proc. Termini e altro, Rv. 230890; Sez. 3, n. 2875 del 21/12/2006, Roma, Rv. 236091; Sez. 1, n. 48309 del 13/01/2012, Carrozzo e altro, Rv. 254088; Sez. 3, n. 13015 del 31/01/2014, Vazzana, Rv. 258702), atteso che a seguito dell’entrata in vigore della cd. legge quadro sull’inquinamento acustico il comma 2 dell’art. 659 cod. pen. sarebbe stato sostanzialmente abrogato, in applicazione del principio di specialità contenuto nell’art. 9 della legge 24 novembre 1981, n. 689, data la perfetta identità dell’ambito delineato dalla norma codicistica e di quello, di contenuto più ampio, sanzionato, solo in via amministrativa, in forza dell’altra disposizione.
Secondo un indirizzo intermedio, infine, è configurabile l’illecito amministrativo di cui all’art. 10, comma 2, della legge n. 447/1995 ove si verifichi soltanto il superamento dei limiti differenziali di rumore fissati dalle leggi e dai decreti presidenziali in materia; la contravvenzione di cui al comma 1 dell’art. 659, cod. pen., ove il fatto costituivo dell’illecito sia rappresentato da qualcosa di diverso dal mero superamento dei limiti di rumore, per effetto di un esercizio del mestiere che ecceda le sue normali modalità o ne costituisca un uso smodato; quella di cui al comma 2 dell’art. 659 cod. pen. qualora la violazione riguardi altre prescrizioni legali o della Autorità, attinenti all’esercizio del mestiere rumoroso, diverse da quelle impositive di limiti di immissioni acustiche (Sez. 3, n. 25424 del 5/06/2015, Pastore, non nnassimata; Sez. 3, n. 5735 del 21/01/2015, Giuffrè, Rv. 261885; Sez. 3, n. 42026 del 18/09/2014, Claudino, Rv. 260658; Sez. 1, n. 25601 del 19/04/2013, Casella, non massimata; Sez. 1, n. 39852 del 12/06/2012, Minetti, Rv. 253475; Sez. 1, n. 48309 del 13/11/2012, Carrozzo, Rv. 254088; Sez. 1, n. 44167 del 27/10/2009, Fiumara, Rv. 245563; Sez. 1, n. 23866 del 9/06/2009, Valvassore, Rv. 243807).
A favore di questo indirizzo si è rilevato, infatti, come l’affermazione secondo cui l’illecito amministrativo tuteli genericamente la salubrità ambientale sia smentito dal tenore letterale delle disposizioni contenute nella legge n. 447/1995, le quali, secondo l’art. 1, sono dettate per la “tutela dell’ambiente esterno e dell’ambiente abitativo dall’inquinamento acustico”. Tali disposizioni, all’art. 2, comma 1, lett. a), identificano l’inquinamento acustico nella “introduzione di rumore nell’ambiente abitativo o nell’ambiente esterno tale da provocare fastidio o disturbo al riposo ed alle attività umane, pericolo per la salute umana, deterioramento degli ecosistemi, dei beni materiali, dei monumenti, dell’ambiente abitativo o dell’ambiente esterno o tale da interferire con le legittime fruizioni degli ambienti stessi”; e ancora, alla lettera b) del medesimo comma, identificano l’ambiente abitativo con “ogni ambiente interno ad un edificio destinato alla permanenza di persone o di comunità ed utilizzato per le diverse attività umane, fatta eccezione per gli ambienti destinati ad attività produttive per i quali resta ferma la disciplina di cui al D.Lgs. 15 agosto 1991, n. 277, salvo per quanto concerne l’immissione di rumore da sorgenti sonore esterne ai locali in cui si svolgono le attività produttive”.
In questa prospettiva, il bene giuridico tutelato dalla “legge-quadro [deve considerarsi] ben più ampio, in quanto il legislatore non si è limitato a prendere in esame esclusivamente la tutela dei singoli individui, perché la sua attenzione risulta focalizzata verso un ben più ampio contesto, valutando ogni possibile effetto negativo del rumore, inteso, appunto, come fenomeno “inquinante”, tale cioè, da avere effetti negativi sull’ambiente, alterandone l’equilibrio ed incidendo non soltanto sulle persone, sulla loro salute e sulle loro condizioni di vita, facendo la norma riferimento, come si è detto, anche agli ecosistemi, ai beni materiali ed ai monumenti”. Pertanto, secondo questo orientamento, una piena sovrapponibilità tra le due fattispecie dell’art. 659, comma 2 e dell’art. 10 citato, deve aversi soltanto nel caso in cui l’attività rumorosa si sia concretata nel mero superamento dei valori limite di emissione specificamente stabiliti in base ai criteri delineati dalla legge quadro, causato mediante l’esercizio o l’impiego delle sorgenti individuate dalla legge medesima. Ed in tali casi, sulla base dei principi enunciati dalle Sezioni Unite n. 1963/2011 del 28/10/2010, Di Lorenzo, Rv. 248722, il concorso tra disposizione penale incriminatrice e disposizione amministrativa sanzionatoria in riferimento allo stesso fatto, deve essere risolto a favore della disposizione speciale, costituita dalla fattispecie amministrativa. Viceversa, restano esclusi dall’ambito comune delle due ipotesi di illecito sia il superamento di soglie di rumore diversamente individuate o generate da altre fonti, sia l’insieme delle condotte che si estrinsecano nell’esercizio di attività rumorose svolte in violazione di altre disposizioni di legge o delle prescrizioni dell’autorità, trovando pacifica applicazione, in tali casi, l’art. 659, comma 2, cod. pen..

Quando, poi, le attività di cui sopra vengano svolte eccedendo dalle normali modalità di esercizio, rivelandosi idonee a turbare la pubblica quiete, sarà invece configurabile la violazione sanzionata dall’art. 659, comma 1, cod. pen. (per questo indirizzo si vedano: Sez. 3, n. 25424 del 5/06/2015, Pastore, non massimata; e, soprattutto, Sez. 3, n. 5735 del 21/01/2015, Giuffrè, Rv. 261885).

2.2. Tanto premesso, rileva il Collegio che la condotta descritta in imputazione rientra nella previsione del comma 1 dell’art. 659 cod. pen. in base a tutti e tre gli indirizzi giurisprudenziali prima richiamati.
Gli schiamazzi e i rumori prodotti dagli avventori di un esercizio pubblico, suscettibili di disturbare le occupazioni o il riposo delle persone, infatti, sono stati ricondotti non alle emissioni sonore prodotte, ordinariamente, da un qualunque esercizio nel quale si somministrino cibi e bevande e nel quale vengano tenuti servizi di intrattenimento musicale, quanto piuttosto a situazioni eccedenti le normali modalità di esercizio dell’attività intrinsecamente rumorosa. Pertanto, anche per il terzo degli indirizzi richiamati deve ritenersi configurabile, in una situazione come quella descritta, la fattispecie di cui al comma 1 dell’art. 659.
Sotto altro profilo, e segnatamente in relazione alla configurabilità della contravvenzione in esame nella forma omissiva, deve osservarsi che la giurisprudenza di legittimità ha riconosciuto, in capo al titolare di un esercizio pubblico, l’esistenza di una posizione di garanzia cui è correlato l’obbligo giuridico di impedire gli schiamazzi o comunque i rumori prodotti, in maniera eccessiva, dalla propria clientela, in questo modo configurando gli elementi strutturali propri delle fattispecie omissive improprie (cd. reati commissivi mediante omissione), caratterizzate dall’integrazione tra la struttura tipica del reato commissivo, cui sono riconducibili alcune tra le condotte previste dal comma 1 dell’art. 659, e la norma generale posta dall’art. 40, comma 2, cod. pen., secondo cui risponde di un evento dannoso o pericoloso colui il quale abbia l’obbligo giuridico di impedirlo.
Detto obbligo, il quale si sostanzia nel doveroso esercizio di un potere di controllo, è pacificamente configurabile a carico del titolare di una attività commerciale aperta al pubblico rispetto alle condotte poste in essere da parte dei suoi clienti che si trovino all’interno del locale, nei cui confronti egli è, dunque, tenuto ad adottare le misure più idonee ad impedire che determinati comportamenti da parte degli utenti possano sfociare in condotte contrastanti con le norme poste a tutela dell’ordine e della tranquillità pubblica. E tuttavia, si è ritenuto che un siffatto obbligo sussista anche per gli schiamazzi e i rumori prodotti dagli avventori all’esterno del locale, potendo il titolare ricorrere ai più vari accorgimenti, dagli avvisi alla clientela all’impiego di personale dedicato, dalla somministrazione delle bevande soltanto in recipienti non da asporto, in modo che esse vengano consumate all’interno del locale, fino al ricorso all’autorità di polizia o all’esercizio dello ius excludendi, quando essi siano comunque direttamente riferibili all’esercizio dell’attività, come nel caso in cui gli avventori permangano rumorosamente in sosta davanti al locale (v. Sez. F, n. 34283 del 28/07/2015, dep. 6/08/2015, Gallo, Rv. 264501; Sez. 1, n. 48122 del 3/12/2008, deo. 24/12/2008, Baruffaldi, Rv. 242808; Sez. 6, n. 7980 del 24/05/1993, dep. 24/08/1993, Papez, Rv. 194904); fermo restando che, fuori da tali casi, non è configurabile alcun potere di controllo e, correlativamente, nessun obbligo in capo al titolare (v. Sez. 3, n. 37196 del 5/09/2014, dep. 5/09/2014, Bonechi e altri, non massimata).

2.3. Nel caso di specie, il titolare dell’esercizio, consapevole dei suoi obblighi, aveva adottato alcune misure volte ad impedire che gli schiamazzi prodotti dai suoi clienti potessero recare disturbo ai residenti nella zona; accorgimenti consistiti nell’apposizione, all’entrata del locale, di un apposito cartellone.
Tali misure, però, sono state ritenute insufficienti in quanto, alla stregua di un giudizio controfattuale esperito dai giudici di primo e secondo grado, le stesse non hanno sortito alcun concreto effetto, non avendo esse determinato alcun apprezzabile risultato, neanche temporaneo, sui disturbi recati dalla clientela. Ciò vale anche per i rumori provocati dai veicoli degli avventori, che venivano parcheggiati in prossimità del locale e che, per effetto di improvvise accelerazioni e per lo stridio degli pneumatici, erano percepiti come una fonte di disturbo dai residenti.

Anche in questo caso, pur avendo il titolare dell’esercizio adibito una apposita area per il parcheggio dei veicoli da parte dei propri clienti, la Corte d’appello ha rilevato, con ragionamento tutt’altro che illogico, come dalla mancata adozione di misure atte ad indurre i clienti a servirsi di tale parcheggio, sito a poche centinaia di metri, per poi raggiungere a piedi il locale, sia derivata una moltiplicazione delle occasioni in cui le vetture degli avventori producevano dei fastidiosissimi rumori. Misure che, invero, sarebbero state di non difficile adozione e che il titolare dell’esercizio avrebbe, quindi, potuto agevolmente assumere una volta raggiunto dalle proteste dei residenti. Né può ritenersi illogica l’affermazione, censurata con il secondo motivo di ricorso, secondo cui sarebbe fondata su “mere congetture” l’affermazione secondo cui l’adozione di misure per regolamentare il parcheggio avrebbe impedito i rumori molesti prodotti dai motori delle automobili condotte dagli avventori del locale.

I principi dettati in materia di accertamento del nesso causale, nondimeno, postulano che l’incidenza causale della condotta asseritamente rilevante sul piano eziologico sia valutata in rapporto ad un evento (ovvero, come nella specie, ad una serie di eventi) storicamente determinati e non in termini di astratta idoneità a determinare modificazione del mondo esterno appartenenti ad una determinata tipologia di accadimenti. Ed è, dunque, evidente come l’adozione di accorgimenti diretti a circoscrivere il volume di traffico nella zona ove era ubicato il locale avrebbe concorso a ridurre, in maniera rilevante, la produzione di rumori avvertiti come fortemente molesti; sicché la mancata sperimentazione di misure rivolte a tal fine, da parte del titolare dell’esercizio, ha sicuramente concorso a determinare l’insieme di eventi rumorosi, storicamente determinati e descritti nell’imputazione, anche se assai difficilmente essa avrebbe impedito tout court ogni manifestazione disturbante.

Del tutto correttamente, dunque, alla stregua dei principi in precedenza richiamati il gestore dell’esercizio è stato chiamato a rispondere del reato di cui all’art. 659, comma 1, cod. pen.; ciò che conclusivamente comporta la declaratoria di infondatezza delle censure dedotte con i primi due motivi di ricorso.

3. Le considerazioni che precedono consentono di rilevare che la configurabilità dei reati in contestazione, riferibili a plurimi episodi di schiamazzi da parte della clientela dell’esercizio di cui Gasparotto era titolare, è stata affermata, innanzitutto, in relazione alle condotte omissive dell’odierno imputato. E tuttavia, i giudici di merito, alla stregua delle concrete emergenze dell’istruttoria dibattimentale, hanno configurato delle ulteriori condotte rilevanti ai sensi dell’art. 659 cod. pen., consistenti nelle emissioni sonore prodotte dall’eccessivo volume della musica suonata all’interno dell’esercizio.

Sul punto, al di là delle questioni relative alla riconducibilità di tali condotte nell’alveo del primo piuttosto che del secondo comma dell’art. 659 cod. pen., rispetto alle quali il ricorrente non ha sviluppato alcuna censura e che, quindi, possono essere qui tralasciate, si opina che le sentenze di merito avrebbero dato ingresso a fatti nuovi rispetto a quelli descritti in imputazione, sicché le stesse sarebbero viziate da nullità, ai sensi dell’art. 522 cod. proc. pen., per violazione del principio di corrispondenza tra l’accusa e la sentenza, sancito dall’art. 521 del codice di rito.

In proposito, giova tuttavia richiamare il consolidato orientamento della giurisprudenza di questa Corte, secondo cui le norme che disciplinano la correlazione tra l’imputazione contestata e la sentenza, avendo lo scopo di assicurare il contraddittorio sul contenuto dell’accusa e, quindi, il pieno esercizio del diritto di difesa dell’imputato, vanno interpretate con riferimento alle finalità alle quali sono dirette. Pertanto, esse non possono ritenersi violate da qualsiasi modificazione rispetto all’accusa originaria, ma soltanto nel caso in cui la modificazione dell’imputazione pregiudichi la possibilità di difesa dell’imputato. In altri termini, per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione, da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa (Sez. U, n. 36551 del 15/07/2010, Carelli, Rv. 248051).

Su tali basi, la violazione del principio in questione sussiste solo quando, nella ricostruzione del fatto posta a fondamento della decisione, la struttura dell’imputazione sia modificata quanto alla condotta, al nesso causale ed all’elemento soggettivo del reato, al punto che, per effetto delle divergenze introdotte, la difesa apprestata dall’imputato non abbia potuto utilmente sostenere la propria estraneità ai fatti criminosi globalmente considerati (Sez. 6, n. 34879 del 10/01/2007, Sartori e altri, Rv. 237415; Sez. 6, n. 12175 del 21/01/2005, Tarricone e altri, Rv. 231483; Sez. 1, n. 4655 del 10/12/2005, Addis, Rv. 230771; Sez. 6, n. 40538 del 6/02/2004, Lombardo, Rv. 229950). E dunque, ai fini della valutazione di corrispondenza tra pronuncia e contestazione di cui all’art. 521 cod. proc. pen. deve tenersi conto non solo del fatto descritto in imputazione, ma anche di tutte le ulteriori risultanze probatorie portate a conoscenza dell’imputato e che hanno formato oggetto di sostanziale contestazione, sicché questi abbia avuto modo di esercitare le sue difese sul materiale probatorio posto a fondamento della decisione (Sez. 6, n. 47527 del 13/11/2013, Di Guglielmi e altro, Rv. 257278; Sez. 6, n. 5890 del 22/01/2013, Lucera e altri, Rv. 254419; Sez. 3, n. 15655 del 27/02/2008, Fontanesi, Rv. 239866).

Nel corso del giudizio di primo grado, infatti, il disturbo recato ai residenti dalla somministrazione di musica a volume altissimo, ha costituito oggetto delle dichiarazioni di numerosissimi testimoni, che la difesa dell’imputato ha potuto liberamente contro-esaminare, così consentendosi un pieno esercizio del diritto al contraddittorio. Ne consegue, dunque, alla luce dei principi prima richiamati che, anche sotto tale profilo, le censure difensive devono ritenersi infondate, nessuna violazione del diritto di difesa essendo configurabile nel caso di specie, avendo l’imputato potuto pienamente confrontarsi, in chiave dialettica e critica, con le contestazioni mossegli nel corso del giudizio.

4. Sulla base delle considerazioni che precedono, il ricorso deve essere rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

PER QUESTI MOTIVI

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 18/01/2017.